Faya Dayi
In esclusiva su MUBI, il documentario di Jessica Beshir assume la forma di un viaggio onirico tra i villaggi e le coltivazioni dell'Etiopia, tra ricordo e allucinazione.
All'inizio e al termine di Faya Dayi, il lungometraggio d'esordio di Jessica Beshir, due sagome appaiono e scompaiono lentamente in una coltre di nebbia e oscurità. Prende forma così, il film, attraverso un'incursione in una dimensione altra, dove la realtà viene oltrepassata e al tempo stesso vista dal suo interno, e le immagini vanno a comporre un velo astratto e onirico. Faya Dayi ci porta in Etiopia, per mostrare la raccolta e il consumo del khat nella regione di Harar, una pianta contenente sostanze psicoattive dagli effetti simili all'amfetamina. Beshir è originaria proprio di quei luoghi e sa molto bene come la vita si sia adagiata sui ritmi della coltivazione e della lavorazione di quella pianta, attorno a cui gravita gran parte del lavoro che un uomo può svolgere e che porta alla rovina e alla disgregazione di intere famiglie. L'unica alternativa è la fuga. Una fuga che può essere mentale, agognata, immaginata, oppure realmente tentata, intraprendendo un viaggio dagli esiti incerti e causa di dolorose separazioni.
L'approccio a questi temi, che racchiudono anche una matrice politica riguardante la situazione degli Oromo e l'esproprio delle loro terre, non segue la linea del comune documentario. Cerca invece di creare un viaggio onirico attraverso le immagini e la loro valenza evocativa. Sin dai precedenti cortometraggi come Hairat, Jessica Beshir fa della pura osservazione il proprio nucleo tematico, plasmando mosaici composti da sensazioni, inquadrature, voci, racconti che scompongono la realtà esteriore per ricercarne l'essenza più profonda. Un flusso di immagini di natura psichica e poetica, in un bianco e nero in cui le inquadrature diurne sono attraversate da ombre e quelle notturne da bagliori, quasi come in un'alternanza tra positivo e negativo di un luogo fuori dal tempo, collocato nella dimensione del ricordo e del sogno. Tramite questo approccio visivo, la regista messico-etiope riflette sull'appartenenza e sull'identificazione nei confronti di luoghi e persone, che diventano un sentimento vitale. Memoria personale, generale e ancestrale si intrecciano in un racconto sulle origini, che possono nascondere ombre ingombranti, ma da cui allontanarsi porta anima e corpo a un distacco. È ciò che è successo alla regista stessa, che tramite le immagini accede ai suoi ricordi e gli dona nuova vita, trascinando con sé lo spettatore in una visione collettiva che tende alle allucinazioni provocate dal khat.
Se Kurosawa ricorreva spesso agli elementi atmosferici sul fondo dell'inquadratura per dare un maggior dinamismo, Beshir si sofferma più volte proprio su quegli elementi e sul movimento stesso, indugiando sul vento che muove foglie e tendaggi, sullo scorrimento del paesaggio e su nubi di fumo che danzano nell'aria, sfuggenti come i ricordi. Immagini che ritornano e che congiungono come delle rime in una poesia in movimento, a contrasto con la stasi di un luogo e di una vita che sembrano schiavi della produzione del khat. Sono questi dettagli a rappresentare il cuore del film e a farne un'opera sensoriale, accompagnati da suoni, volti, persino odori e soprattutto da mani. Mani che raccolgono, che schiacciano, che tessono e si stringono in preghiera, diventando protagoniste in modo quasi bressoniano e racchiudendo nei gesti tutte le diramazioni del racconto.