Jessica Jones (1° st.)
La cifra più fantastica dell'universo marveliano si stempera in una rappresentazione brutale della realtà, che rielabora la prospettiva al femminile in una metafora della violenza sulle donne
Nell’ambito della serialità supereroistica bisogna ormai distinguere fra un prima e un dopo Daredevil, per la netta impennata qualitativa che il serial di Netfilx ha impresso al genere: Jessica Jones rappresenta il primo tentativo di capitalizzare su quel successo, con una nuova eroina disfunzionale, inserita in un contesto dark dove la cifra più fantastica dell’universo marveliano si stempera in una rappresentazione brutale della realtà. In questo senso, però, Jessica Jones è tanto una prosecuzione di certi spunti già osservati proprio in Daredevil, quanto un’evoluzione della traccia al femminile portata avanti contestualmente da Agent Carter.
Se, infatti, le linee guida cercano come sempre di mantenere un approccio fedele al materiale cartaceo creato, in questo caso, da Brian Michael Bendis e Michael Gaydos, nella sostanza Jessica Jones elabora la visione “al femminile” già evidenziata dalla serie ABC, ma rovesciandola di segno. Protagonista, infatti, non è una durissima agente che deve suo malgrado farsi strada in una società al maschile, ma, al contrario, un’eroina suo malgrado (complici i poteri straordinari che le conferiscono una forza fuori dal comune), emancipata e indipendente, ma costretta nel ruolo della vittima. La disfunzionalità del personaggio è infatti figlia di una serie di eventi celati nel suo passato e che la narrazione, abortendo alla classica linearità da racconto di origini, rivelerà soltanto strada facendo. L’impatto è dunque quello spiazzante dato da un personaggio autodistruttivo e per nulla incline al confronto con il mondo che la circonda, refrattaria a gesti di umanità sebbene costretta dal mestiere a esercitare il ruolo dell’investigatore privato, e a intervenire perciò nelle vite altrui in modo più o meno costruttivo.
A lei si oppone Killgrave, supercattivo in grado di controllare le menti e che esprime in tal modo l’emblema del maschio stupratore, che riesce, con la volontà prima ancora che con la violenza fisica, ad annichilire la femminilità del personaggio fino a ricondurla a mera servitù. Il rapporto, non a caso, ha il sapore di un’ossessione morbosa, dichiaratamente d’amore ma in realtà di sopraffazione e dominazione egoista, che non tiene conto dei bisogni dell’altro, ma soltanto della propria soddisfazione. La metafora è chiara e chiama in causa temi come la violenza sulle donne o il femminicidio, e la serie cerca di esprimere il sentimento panico di una protagonista privata dei propri punti di riferimento e della propria fisicità: Jessica infatti è forte, ma fragile, mascolina nel vestire, ma bisognosa di una controparte che troverà in Luke Cage, energumeno che – all’opposto – unisce a una pelle indistruttibile una capacità empatica molto sincera e disinteressata.
La forte componente metaforica cerca di sopperire alla mancanza di un’iconografia icastica come era quella di Daredevil, in un confronto fra la protagonista e la sua nemesi che ha il sapore di una partita a scacchi, dove i due si cercano e si fronteggiano. Di contorno si cerca di allargare la possibile risonanza garantita dal tema, stemperando in tal modo il possibile manicheismo uomo/donna: ecco pertanto l’amica Trish e l’avvocatessa Jeri che, a loro modo, vivono o rappresentano altri possibili modelli di sopraffazione e dominio sulle donne, l’una attraverso una madre virago e l’altra con una ex moglie ricattatrice, ma allo stesso tempo vittima delle sue egoistiche macchinazioni.
A convincere meno è però proprio il determinismo con cui si tenta di consegnare Killgrave a tutti i costi nel ruolo del cattivo, senza concedergli nessuna delle attenuanti che sempre accompagnano ogni personaggio: vittima a sua volta di un altro dominio (quello esercitato dai genitori che compivano esperimenti su di lui) e illuminato dal trascinante carisma british dell’attore David Tennant, Killgrave è certamente un assassino, ma anche un cattivo perché lo disegnano così, sebbene alcuni spunti lascino suggerire che di fronte lo spettatore altro non abbia che un personaggio a sua volta frutto di una deviazione dalla giusta via conseguente i traumi pure sepolti nel passato. Resta interessante il gioco di contrapposizioni fra una protagonista che non fa nulla per cercare l’approvazione dello spettatore e un cattivo che invece affascina e conquista, e determina così lo stordimento sensoriale di una serie che oscilla fra un tono più trasognato e uno estremamente realistico nell’evocare idee di violenza (si cita più volte lo stupro, si mostrano gruppi di sostegno per chi è stato vittima di abuso). La chiave di lettura più efficace è dunque quella della ricerca di un’identità, che rinsalda in questo modo il legame con Daredevil.
Menzione di merito, infine, per la strepitosa sequenza “pittorica” dei titoli di testa, creati da David Mack partendo dalle scelte grafiche compiute dallo stesso artista per le cover del fumetto originale, e che sottolinea una volta di più la volontà di una rappresentazione del dramma sì genuina, ma anche maggiormente espressionista.