Halloween - La notte delle streghe
Le origini dello slasher “metafisico” e seriale americano in un film che ormai appartiene al Mito, così come il suo protagonista: Michael “The Shape” Myers.
Ci fu un tempo – di cui probabilmente risalta, ormai, più l’aura mitica che la dimensione meramente storica – in cui il cinema italiano fece scuola, aprì orizzonti, creò o rielaborò genialmente archetipi. Dal ’45 alla fine degli anni Settanta la nostra produzione filmica poté vantare, sul versante autoriale (etichetta invero labile, scivolosa e, almeno oggi, quanto mai permeabile), alcuni dei nomi più illustri e stimati del panorama mondiale, accompagnati da una pletora di professionisti, sagaci artigiani, ingegnosi manipolatori di immagini, suoni e sogni, sovente non meno abili, innovatori e visionari dei Maestri riconosciuti.
Il nostro cinema di genere, una volta superata – a cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta – l’infanzia del peplum, dell’avventuroso e di altri sotto-filoni minori, a partire dal ’64 (anno dell’esordio di Leone nel western con Per un pugno di dollari) e fino al ’79 (emblematica data di passaggio, che segnò l’uscita sugli schermi del crepuscolare Da Corleone a Brooklyn di Lenzi, una sorta di canto del cigno del cinema popolare italiano più vitale) conobbe la parte più smagliante e irripetibile della propria stagione di gloria, di cui vanno ricordati almeno tre indiscutibili meriti: recuperò e rilanciò il western, declinante negli USA, e lo vivificò con accenti nuovi, insospettabili e inediti; sviluppò un prolificissimo filone giallo-thriller, dapprima connotato da torbidi intrighi familiari altoborghesi e da trame perlopiù all’insegna del whodunit (con i nomi di Guerrieri, Lenzi e Martino a contendersi il podio), poi innervato e rilanciato dalle barocche intuizioni di Argento, che sfumeranno in una visionarietà più vicina all’horror e che origineranno un filone “argentiano” vero e proprio; declinò con accenti assai personali e sfaccettati il poliziesco metropolitano americano (talora guardando anche al polar francese, come nel caso di Di Leo), originando il cosiddetto “poliziottesco”, nelle sue molteplici variazioni action, politiche, sociologiche.
Nello specifico del filone giallo-thriller italiano e nelle sue più o meno marcate sfumature horror, è possibile anche rintracciare alcuni tratti ricorrenti dello slasher americano, che invaderà gli schermi fra i Settanta e gli Ottanta.
Di fatto, i vari Bava, Argento, Fulci e in parte Martino costituiscono i pionieri veri e propri di un filone che conoscerà il pieno successo negli USA con qualche anno di ritardo – e con almeno una rimarchevole differenza, come si vedrà tra breve – rispetto agli esempi italici, senza ovviamente dimenticare, a monte, la rilevanza e la potente influenza di almeno due veri e propri numi tutelari (per chiunque, al di qua e al di là dell’Atlantico) come l’Hitchcock di Psyco e il Powell de L’occhio che uccide.
Bava è fra gli iniziatori del giallo italico con La ragazza che sapeva troppo (1963), ma soprattutto è il primo a codificare il linguaggio, le figure ricorrenti, il ritmo del moderno cinema di paura: Sei donne per l’assassino (1964) è il primo vero antesignano dello slasher moderno (con buona pace dei vari Clark e Gershuny, sia detto senza alcuna malevolenza), mentre Reazione a catena (1971) è il primo slasher moderno, pervaso oltretutto da una (auto)ironia e da una consapevolezza dei meccanismi e dei cortocircuiti della suspense, della violenza, nonché del linguaggio filmico che le mette in scena, di cui non sempre gli americani avranno contezza. Fulci e Argento, nei Settanta, consentiranno un’ulteriore evoluzione al filone in senso macabro e visionario, ponendo numerosi e imprescindibili tasselli al quadro complessivo, che qui è superfluo enumerare (così come risulterebbe pleonastico sottolineare il loro contributo all’horror puro), mentre Martino, in quel pregevole “pezzo unico” della sua collezione di titoli che è I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973), compirà l’ennesimo prodigio tecnico-linguistico di matrice italiana, creando, specie nell’ultima parte del film, un vero e proprio prototipo e vademecum dello slasher.
Al di là delle disamine cronologiche e dei giudizi di merito nel confronto giallo-thriller/slasher, l’elemento più evidente, e tutt’altro che secondario, di discontinuità fra Italia e USA si situa nella caratterizzazione dei villains, che, sul versante americano, propende per una vena fantastica e mitizzante, decisamente più consona all’horror puro (non a caso lo slasher americano è considerato un sotto-filone dell’horror tout court, al contrario dell’assai più ibrido giallo italiano). Che si tratti dell’ottusa e inarrestabile meccanicità di morte dei vari Leatherface (anche se Non aprite quella porta travalica i confini dello slasher in senso stretto), Michael Myers, Jason Vorhees, o piuttosto della sarcastica e mordace vena macabra di un Freddy Krueger, i mostri che popolano i titoli più rilevanti del filone negli USA sono pressoché immortali. Di qui la serializzazione spinta delle figure più riuscite (assente nel cinema italiano, che procede, piuttosto, per clonazione/gemmazione di archetipi e modelli), legata anzitutto all’aura sovrannaturale di cui sono ammantate, che ne rende pressoché immortale anche il Mito.
Il Diavolo, probabilmente… Oppure, in un’ottica più laica, la messa in immagini del Male assoluto, l’incarnazione visiva della sua figura, della “shape” che ne marca i pochi ma indimenticabili tratti. La prima apparizione sugli schermi della silhouette stilizzata, e proprio per questo massimamente icastica, di Michael Myers – altrimenti noto, non a caso, come “The Shape” – è una sorta di inesorabile (nuovo) inizio per l’horror americano, che veniva già da dieci anni di apparizioni perturbanti. Gli zombi romeriani avevano già ampiamente fatto parlare di sé (e, nello stesso periodo dell’uscita di Halloween – La notte delle streghe, sarebbero riapparsi in Zombi, continuazione de La notte dei morti viventi); Krug Stillo e Leatherface, con i rispettivi nuclei familiari ampiamente disfunzionali, avevano già dato prova della propria ferocia, senza dimenticare l’importanza, al di fuori del contesto indipendente del New Horror, di un’altra memorabile raffigurazione del Male, quella del Demonio in persona ne L’esorcista di Friedkin.
Il killer concepito da John Carpenter (e Debra Hill) è estremamente moderno e, allo stesso tempo, antico, originario: si muove come un Golem, o come un robot, magari come uno zombi, rimanda per certi versi agli “automi di morte” dell’espressionismo tedesco, eppure, nelle fattezze della bianca maschera inespressiva che indossa, è un’apparizione che oltrepassa il déjà-vu, non risultando del tutto inedita eppure creando uno strisciante senso di inatteso. Inoltre, elemento sostanziale, Myers è di fatto il primo assassino seriale del cinema moderno del brivido a essere caratterizzato da un’inumana persistenza. In secondo luogo, la maschera che indossa non serve a occultarne i tratti bensì paradossalmente a rivelarne l’identità, lo spirito privo di umanità ed emotività, un abisso insondabile di meccanica predazione. Lontano dalle derive psicotiche di un Norman Bates (vero e proprio groviglio inestricabile di pulsioni irrisolte) o di uno qualsiasi dei molti killer del cinema italiano (argentiano e non) o americano (quanta istintività belluina pulsava invece nei feroci personaggi del cinema di Craven, Hooper o Romero), The Shape è l’incarnazione, la personificazione di un Male primigenio, pre o post-umano, privato di qualsiasi connotato vitale e comunicativo. Muto, imponente e letale, egli abita le pieghe più riposte della notte e i recessi più intimi dell’inconscio, proiezione opaca della (paura della) morte, tanto più spaventosa quanto più incomprensibile, inafferrabile.
Carpenter, come aveva già fatto in Distretto 13 e come tornerà a fare in molti dei suoi lavori successivi, rifinisce le ombre e i chiaroscuri notturni, traendone l’ambiente ideale per l’incedere progressivo dell’inquietudine, e orchestra un dialogo incessante fra campo e fuori campo, fra visibile ed invisibile, sviluppando la tensione come spinta irresistibile per lo sguardo a perlustrare l’ambiente, una spinta che non può risolversi se non nella rassegnazione dell’attesa, come accadeva anche con i grandi maestri classici dell’orrore (su tutti, la coppia Lewton-Tourneur). D’altro canto, il regista americano si dimostra anche massimamente moderno e innovatore, spingendo alle estreme conseguenze le intuizioni di Powell sulla soggettiva (Peeping Tom) e sul potere mortale dello sguardo (senza dimenticare la lezione – anche se più sperimentale che effettivamente teorica – di film come La fuga di Daves o Una donna nel lago di Montgomery, entrambi del ‘47), dell’”occhio che uccide”, che in definitiva è il potere del cinema. La celebre soggettiva iniziale di Halloween non è solo un virtuosistico esercizio di suspense o una chirurgica messa in discussione dei meccanismi psichici dell’identificazione spettatoriale, ma è anche il marchio, l’imprinting dello sguardo di Michael, che pervaderà di sé l’intera pellicola. È come se tale sguardo colonizzasse l’intera visione del film, ed è inoltre come se esso fosse immutabile, nel passaggio da un’età all’altra del personaggio: l’intuizione forse più brillante di Carpenter si situa proprio in questo uso della soggettiva, giacché l’assenza dell’Uomo Nero dal quadro implica la sua presenza in un luogo imprecisato del fuori campo, e questo accade, salvo nelle sequenze di raccordo o di sviluppo psicologico degli altri personaggi, pressoché per tutta la durata dell’opera.
Rimarrebbe da chiedersi come guardi Michael e soprattutto cosa egli effettivamente veda. E qui, probabilmente, si tocca il vertice della poetica carpenteriana all’opera in questo film: la sovrapposizione fra la soggettiva (anche se quasi mai linguisticamente chiarita come tale, a parte nell’incipit) onnipresente di Michael e il vedere dello spettatore non comporta una corrispondenza anche della realtà osservata. Qui si innesca il vero cortocircuito fra sguardi sovrapposti, ma mai coincidenti, giacché la verità, in questo caso, non si situa nel reale, ma nella rappresentazione soggettiva, o meglio connotativa, che il guardante dà agli oggetti della propria osservazione. Ed è evidente che il grande e irrisolto mistero che avvolge la psiche di Michael impedisca la possibilità effettiva di collocarsi nel suo punto di vista. In breve, per buona parte del film, lo spettatore è negli occhi del killer senza sapere cosa questi stia guardando e quale etica (o assenza di essa) innervi tale visione.
Quindi, con Halloween, Carpenter non solo apporta un decisivo contributo allo sviluppo dello slasher (tuttavia, in un horror esangue, uno slasher senza “slashing”), con la creazione del primo vero grande boogeyman dell’horror contemporaneo, ma compie anche uno dei primi passi determinanti nella propria indagine estetico-tematica del Male, attraverso una ricerca linguistica e visuale che armonizza classicità e modernità e che, soprattutto, esprime al meglio i limiti, le contraddizioni e gli abbagli della percezione, che si dimostra impotente a rivelare il senso ultimo del reale. L’essenza più profonda del cinema horror, e magari del cinema in quanto tale, è probabilmente tutta in quest’ultimo e decisivo tassello.