Halloween Ends
David Gordon Green rinuncia al Cinema per la sua celebrazione, facendo del nuovo Halloween la messa commemorativa dei propri personaggi e del proprio immaginario.
È sottinteso uno scarto di tono evidente tra il titolo-manifesto Halloween Ends e il precedente Halloween Kills. Se la giocosa promessa di quel kills attribuiva un senso quasi exploitation all'operazione (senso peraltro assente dal prodotto ultra-mainstream proposto), il perentorio ends pare piuttosto una ferma dichiarazione di intenti, preventive mani avanti di un comparto autoriale sempre più disaffezionato.
La trilogia di David Gordon Green finisce, dunque, ma l'impressione è che tutto si sia concluso ancor prima di iniziare. Dopo 340 minuti di girato, resta difficile stabilire quale sia la direzione artistica intrapresa da Gordon Green e Danny McBride. Non poteva certo dirsi lo stesso per il precedente dittico di Rob Zombie - e persino il recente reboot gemello di Non aprite quella porta aveva trovato una propria specificità commerciale nella discussa svolta sudista. I nuovi Halloween, più ricchi e un po' tronfi, continuano a mettere sul piatto qualcosa in termini di spettacolarità: ma anche al loro meglio, la sensazione è sempre rimasta quella di una lista della spesa di scene "obbligatorie", più che un discorso articolato sulle stesse.
Come altre operazioni contemporanee, l'Halloween del 2018 si era aperto come un back-to-basics, riallacciandosi all'originale per fare terra bruciata di ogni variazione innestata negli anni sulla scarna traccia lasciata da John Carpenter. Una restaurazione intenzionata a spurgare ogni sovrastruttura (psicologica, onirica, grottesca, ironica), e riportare tutto a una sorta di essenza sublimata dello slasher. Ecco, la sfuggente identità dell'opera può forse trovarsi in questa sua ricercata genericità: film lineari, senza fronzoli, dalla struttura consolidata e sicuri ancoraggi iconografici a indirizzare il racconto. Gli eventi del 1978 sono riproiettati sul presente, inalterati: trauma generazionale mai superato, che con meccaniche ritualistiche torna a manifestarsi ciclicamente nel cuore della comunità. La centralità scenica di Haddonfield (con riferimenti anche espliciti alla Derry di Pennywise), è più che il solito obolo nostalgico pagato all'immaginario Amblin: la provincia americana para-eighties ha oggi le dimensioni metastoriche del panorama mitologico - e solo al Mito appartiene ormai la battaglia tra Michael Myers e Laurie Strode.
È questa riverenza verso la propria ortodossia ad abbassare l'insieme sotto il livello delle singole parti (di cui Halloween Ends rappresenta comunque la meno efficace). Il trend degli stravolgimenti postmodernisti è finito da un pezzo: nell'epoca post-televisiva i franchise arricchiscono la propria continuity per accumulo, celebrando se stessi nella ripetizione. L'inscalfibilità di Laurie, ormai inarrestabile e potente quanto Myers stesso, è sintomatica: un racconto i cui protagonisti, per contratto, non possono più morire, ha più del superhero movie che dello slasher. L'asservimento ai personaggi tiranneggia su ogni sviluppo che il moderno Halloween possa reclamare per sé, subordinandoli alla riproposizione ossessiva delle sequenze "storiche". Sgraziata parodia di quella famosa massima di Faulkner, il passato non è passato – è fisicamente qui, preso nella goffa recita di se stesso, come quei vecchi eroi del west ridotti a mimare le proprie imprese nei circhi itineranti. Giorno della marmotta, più che delle streghe.
In Halloween Ends, il movimento centripeto al cuore della nuova trilogia tradisce peggio del solito la povertà di idee di fondo. Nel suo abbozzo di plot, il film suggerirebbe una lettura di Myers come archetipo psicanalitico, riallacciandosi al filone delle origini del mostro come reietto di una comunità infame (già visto, ma pazienza). L'elaborazione del "fenomeno Myers" nella sua dimensione sociale parrebbe quindi coerente con lo spunto iniziale della saga - la ricerca di un senso all'orrore a partire dalla sua esperienza collettiva. Ma è solo una finta, per l'ennesimo scatto a rientrare: lo spunto si esaurisce in un pugno di sequenze, le nuove voci vengono zittite, e il tanto atteso climax ricondotto ai soliti luoghi, e le solite immagini.
Fino a pochi anni fa, gli autori di questo genere di saghe erano abituati a cercare linfa vitale nelle svolte più assurde e creative. La longevità era garantita promettendo (e mantenendo) un surplus continuo sulle inaridite premesse: Jason nello spazio, Freddy sul set di Nightmare, Ash nel medioevo e Yautja a caccia di xenomorfi. Il Myers di Gordon Green, negazione di quell'exploitation pur evocato nei titoli, ad andare nello spazio non ci pensa affatto: è sempre qui, esita di fronte allo stesso armadio, cerca lo stesso coltello nella stessa cucina dove rimettere in scena lo stesso scontro finale di sempre. Ogni tentazione di diventare altro, non può che morire squartata.