Manhunt
L’ultima coreografia di proiettili e sangue firmata John Woo raggiunge vette di frammentazione visiva e montaggio sperimentale senza precedenti.
In un locale giapponese dal sapore retrò, un uomo e due donne parlano dei grandi classici di una volta. “Qui tutto mi fa venire in mente i vecchi film.” L’uomo, che sembra uscito da un poliziesco nipponico anni sessanta, va a prendere in macchina uno di quei film che non si fanno più. Proprio in quel momento si apre uno squarcio nel tempo, la nostalgia cede il passo a un estremo ribaltamento di genere: per la prima volta John Woo libera le sue donne, le trasforma in serial killer selvagge che, con furia iconoclasta, ammazzano gli yakuza presenti nel locale.
Parte così, nella gioia pirotecnica di una sparatoria senza gravità, Manhunt, girato in terra giapponese, che è sia un liberissimo remake dell’omonimo film degli anni ’60 firmato Ken Takakura, sia una nuova, esaltante reincarnazione del cineasta cinese.
Woo ricorre agli stilemi che hanno fatto grande il suo cinema, ne omaggia le figure chiave e i topoi ricorrenti: ritornano le immancabili colombe bianche che simboleggiano il potere dell’amicizia e della pace, ritornano le coreografie in ralenti, i combattimenti corpo a corpo, l’action-movie granitico sciolto in musical di proiettili e sangue. Sì, è un ritorno a casa quello di Woo, ma insieme una resurrezione in forme differenti: perché se da una parte si guarda al cinema americano d’antan e al noir del Sol Levante, dall’altra la frammentazione visiva raggiunge livelli radicali. Qui più come mai il montaggio diventa scrittura stessa dell’immagine: le figure si dissolvono, si sdoppiano, si bloccano, l’azione si condensa in cristalli di tempo subito pronti a saltare in aria con cinetico ludismo.
Tutto ha la leggerezza del volo, ammantato di un umorismo straniante.
I personaggi parlano, agiscono, combattono proprio come nei vecchi film di una volta, nonostante il mondo non sia più lo stesso. L’anacronismo diventa l’eterno presente del cinema, un mondo altro, con le sue leggi, le sue pallottole, le sue relazioni sociali. Sotto la superficie ricreativa, infatti, Manhunt attua una vera e propria reinvenzione del tempo: le schegge impazzite di un montaggio pensante si attraggono come calamite, dissolvendosi l’una nell’altra. La dissolvenza si fa cucitura delle immagini, chirurgia sperimentale con cui ripensare lo spazio, il tempo, il movimento: diviene una figura creatrice di doppi, capace di lasciare la scia, la traccia dell’azione. Woo è scatenato, irrefrenabile, con lo stesso brio, la stessa energia, la stessa libertà di un esordiente. Manhunt, in tutta la sua freschezza, lascia trasparire una voglia di far cinema, un desiderio di pensare le immagini, davvero esorbitanti. E anche quando il film vira verso il b-movie dal gusto strepitosamente sci-fi, con uomini dalla forza brutale e combattimenti da manga giapponese, Woo continua ad agire nel cuore stesso delle immagini.
Proprio allora una figlia si ribella al pater familias ribaltando i rapporti di potere e lanciando una nuova sfida al cinema cinese. E nel 2017, tra le pieghe di un buddy movie scanzonato e anarchico, John Woo continua ancora a combattere. E a vincere, sempre.