À jamais
Tratto da ''Body Art'' di DeLillo, il film di Jacquot si confronta con la prosa alienante del grande scrittore americano.
L’attrazione tra Laura e Ray nasce nel silenzio di uno scambio di sguardi, lui regista nel pieno della carriera, lei performer artist agli inizi. I due si ritrovano presto assieme, vivono in una casa pressoché deserta, dalle pareti antracite e ampie finestre. Tuttavia la dinamica di coppia precipita nell’incomunicabilità, senza alcuna crisi evidente la routine semplicemente si spezza, minata da un vuoto creativo che colpisce soprattutto il lavoro di Ray. Sarà questo forse a spingerlo nella ricerca di un incidente fatale, una corsa con la moto che viene casualmente ripresa dalle telecamere dell’autostrada. Il risultato è un video di sicurezza che Laura ottiene, e sul quale ritornerà costantemente nei giorni a venire: nella ripetizione costante la strada e le macchine si trasformano in un unico flusso circolare, un nastro di Möbius all’interno del quale la morte di Ray diventa soltanto una macchia sulla superficie, un’imperfezione da livellare un giro dopo l’altro.
Dopo David Cronenberg tocca a Benoît Jacquot cimentarsi con la prosa alienante e scomposta di Don DeLillo, À jamais nasce dal breve Body Art e di questo cerca di restituire le riflessioni e implicazioni teoriche, metalinguaggio e crasi tra arte e intimità ferita, riuscendo solo in parte a darvi un’autonoma forma cinematografica.
Probabilmente la migliore intuizione di À jamais è proprio l’uso che fa del nastro di sicurezza stradale, la manifestazione concreta di come la mente di Laura rischi di perdersi nell’empasse dell’elaborazione luttuosa.
La morte di Ray infatti spezza la narrazione a metà, un colpo che frammenta la superficie e lascia al suo posto un delicato tappeto di schegge appuntite. Anche l’identità narrativa del film si infrange, un algido, splendido inizio amoroso si converte nell’incontro tra l’horror psicologico e il melodramma, la sofferenza si rovescia nella paranoia, il lutto nella psicosi. La casa abitata da Laura diventa un luogo abitato da fantasmi, il volto di Mathieu Amalric una superficie liscia, robotica, che riflette meccanicamente frammenti delle ultime conversazioni avute in vita. Come sempre in DeLillo la crisi dello spirito passa per quella del linguaggio, l’essenza spezzata delle cose si palesa nella deformazione del suo significante. Per questo Laura, artista del linguaggio corporeo, non può che ricorrere ad una rielaborazione intellettuale e linguistica del lutto, il trauma si affronta cercando di ripristinare un intero assimilandone le fattezze, i tic, le inflessioni. Ray diventa prima un modello imitativo e poi il materiale per uno spettacolo vero e proprio, una trasfigurazione sul palco del dramma della separazione.
Pur strutturando diversamente la relazione tra Ray e Laura, il libro di DeLillo già contiene il rapporto tra recitazione esteriore e mutamento interiore, interpretazione e assimilazione. Coerentemente Jacquot si concentra totalmente in questa direzione, sacrifica un andamento evidente dei personaggi nel tentativo di dare forma ad un’evoluzione più intima e sotterranea, e per farlo ricorre anzitutto a codici di genere. Tuttavia questa trasformazione del corpo filmico non convince mai fino in fondo, si avverte sempre un distacco tra le contingenze intellettuali e la forma adottata da Jacquot; a partire dall’elegante freddezza che attraversa tutto il film, la riproposizione di genere resta a livello troppo intellettuale, distante, decostruita ma mai esplosa. L’operazione, difficilissima in partenza, resta comunque un tentativo interessante di confrontarsi con la prosa del grande scrittore americano, per quanto questo rapporto si sia forse limitato alla referenza e alla traduzione cinematografica, senza lasciare che le immagini possano porsi autonomamente in dialogo diretto con la pagina scritta.