Flee
Un film straziante eppure lucido, che racconta la vita e nel farlo, racconta la Storia. Nella speranza di imparare qualcosa.
C’è un legame sottile che lega le immagini, così diverse, che compongono la storia di Flee, film diretto da Jonas Poher Rasmussen, candidato all’Oscar come miglior film animato, miglior documentario e miglior film internazionale. E questo legame apparentemente invisibile è in parte spiegato dalle stesse candidature agli Oscar: miglior film animato e miglior documentario. Quest’opera – che racconta la storia vera di Amin, fuggito dall’Afghanistan dopo l’arrivo dei mujaheddin e giunto nella Russia post-comunista, da cui tenta quindi di raggiungere lo zio e le sorelle in Svezia – è un flusso di coscienza, un fiume-ricordo che, proprio in virtù della sua essenza, mescola immagini diverse. Se è vero che la Storia non la si può oggettivizzare, è altrettanto vero che la si può ricostruire attraverso la memoria. E sebbene fallace, viziata dalla prospettiva di una singola soggettiva, è con gli occhi di Amin che attraversiamo dolori e sofferenze di un decennio di Storia, i cui effetti e attualità sono validi anche e soprattutto oggi.
Rasmussen opta per un’animazione classica (che zoppica da un punto di vista tecnico; c’è poca fluidità, in controcorrente con quello a cui siamo abituati nell’animazione contemporanea) che interpola a immagini di repertorio, proposte con un formato anomalo ma che ben rende nella composizione della storia di Flee, e altre immagini più artistiche, essenziali ed intimiste, con cui sono rappresentati gli orrori interiori di Amin. E ce ne sono molti, di orrori, in questo film. Amin cerca la sua strada. Nel farlo compie un viaggio, molti viaggi: tutti terribili, che lo pongono nella scomoda situazione di affrontare la crudeltà umana. In questo, Flee non è compiaciuto ma si pone nei confronti della materia in una forma empatica senza mai cadere nel didascalismo o nella malizia. Le parole e i ricordi di Amin sono reali e in quanto tali fanno male. Ma nonostante la morte, la sofferenza, la spietatezza che il povero Amin è costretto ad assistere, riesce a trovare uno spiraglio di speranza. E in quella speranza, trova sé stesso. Facendo i conti con la propria omosessualità. Ma anche con il male del mondo, che è disposto ad affrontare se affiancato dalla persona che ama. Amin sta per sposarsi, forse ha trovato casa con il suo compagno, ma qualcosa lo blocca. Il ricordo di ciò che ha affrontato gli permette di risalire quell’onda oscura che ha vissuto sulla sua pelle.
Flee è sicuramente un’opera che si muove su un territorio intimista, tutta giocata sulle parole e sullo sguardo del suo protagonista. Ma è anche un film in grado di intersecare condizioni storiche di grande portata, privilegiando sempre il punto di vista personale e intimo di Amin. E così l’Afghanistan, terra martoriata ormai da decenni, diventa il primo teatro della vita di Amin, quello in cui la dolcezza della sua infanzia si mescola con l’orrore della guerra; e dopo l’Afghanistan si arriva alla Russia post-sovietica, un Paese disgregato, corrotto, allo sbando. C’è una sequenza particolarmente significativa: nella Russia povera apre il primo, storico McDonald’s. Dietro un momento di (apparente) felicità, si celebra un dramma, a cui assiste lo stesso Amin. Una duplicità che sintetizza la sua vita, testimone involontario di un dolore e di un’insensibilità spezzata solo a volte da sprazzi di umanità (come quando, nel bosco russo, gli uomini decidono di aiutare un’anziana signora, o quando il fratello di Amin porta in spalle un bambino).
Sono tragedie di più di venti anni fa. Ma sono pregne di contemporaneità. E qui sta la forza di un film come Flee: raccontare la vita e nel farlo, raccontare la Storia. Nella speranza di imparare qualcosa.