Di norma, nel genere horror, il fantasma è l'espressione di un'ingiustizia subita, di un perdono mai dato, di emozioni dilatate e selvagge. Il soprannaturale è messo in scena come uno spazio che si estende sia al di qua che al di là dell'umano. Da una parte il ferino, il bestiale: la Gurù che Tommaso Landolfi porta alla vita ne La Pietra Lunare. Dall'altra, l'espressione di una razionalità olimpica, slegata dalle bassezze del quotidiano: lo spirito guida o l'angelo vendicatore. Kaneto Shindo porta ai suoi limiti il dualismo qui sommamente schematizzato. In Kuroneko, i fantasmi amano e odiano come nell'epica o nella poesia: vita più grande della vita.
Il film si apre con una sequenza a dir poco brutale, in cui due donne sono violentate e uccise, e la loro casa è data alle fiamme. I colpevoli sono i membri di una banda di banditi. O di samurai, il che è lo stesso: Il Giappone feudale di Shindo è anche qui, come in Onibaba, del tutto privo di poesia o di codici cavallereschi. Diventa samurai chi sopravvive all'ultimo massacro e si inventa la storia più assurda per celebrare il proprio ego.Protetti dai loro signori e dagli alibi marziali di un paese in guerra, questi uomini-mostro uccidono e vengono uccisi in nome del potere.
Tuttavia, questo potere, prerogativa degli uomini, si rivela inutile a fronte della vendetta degli spiriti delle due donne, che li adescano e massacrano nel cuore della notte. Il loro giuramento agli dei: bere il sangue dei samurai finché calpesteranno la superficie della terra. La vendetta sarebbe semplice, non fosse che il samurai incaricato di porre fine alla maledizione ed ucciderle è il figlio di una delle due donne e il marito dell'altra.
Basterebbe questa premessa a dare l'idea di quanto Kuroneko sia ricco di sfaccettature e di carica politica. Presentato a Cannes nel 1968, il film è stato definito antimilitarista, femminista, anticlassista. Kuroneko mette in scena una danza delicata tra amore e morte, e sotto la sua superficie folk horror scorrono le energie della Nūberu bāgu, la “nuova ondata” del cinema giapponese d'autore che, tra gli anni Cinquanta e Settanta, ha segnato profondamente il cinema nipponico e globale.
La cura per la messa in scena è straordinaria, tutta giocata su ombre, veli e sequenze notturne che, a dispetto dei limiti tecnici dell'epoca, non perdono nulla della propria bellezza. Un ottimo esempio è rappresentato dal “rituale” della caccia ai samurai: le donne volteggiano nella notte, si mostrano indifese alla loro preda. Si dichiarano perse, chiedono di essere riaccompagnate a casa attraverso la foresta. Ingannati con le illusioni e con l'ebbrezza dell'alcool, vengono spinti all'atto sessuale e, al contempo, alla loro morte. La violenza è ritualizzata, velata, scandita dai passi di una danza notturna.
Kuroneko è anche un'incursione nella sfera della sessualità e nelle sue contraddizioni, tema che Shindo ha esplorato sistematicamente nel corso della propria carriera. Tra Onibaba (1964) e Kuroneko (1968), l'autore ha diretto Lost Sex (1966) che tratta il tema dell'impotenza maschile in un'ambientazione contemporanea.
Un impero dei sensi immenso quanto fragile. Il legame sesso-morte rompe l'ordine delle cose ed è tra le sue pieghe che la missione del samurai di Kuroneko si fa impossibile: sull'insolubile dilemma tra fedeltà e umanità si impernia il cuore melodrammatico del film.