Onibaba - Le assassine
Kaneto Shindo mette in scena l'orrore della povertà in un mondo fatto di fame, egoismo, passioni incontrollabili.
Un mare d'erba alta, smosso da implacabili folate di vento, è il silenzioso mondo dove si svolge il dramma di Onibaba. Qui, ai margini della civiltà e in un abisso di miseria, i sopravvissuti di una guerra interminabile si nascondono dai propri nemici. Una lama guizza tra la vegetazione: colpiti a tradimento, vengono uccisi e derubati. Gli assassini non sono soldati, né spiriti malvagi: emergono due donne dallo sguardo ferino, private di ogni mezzo di sostentamento e affamate. Per vivere sono spinte ad uccidere e vendere le armi e armature dei soldati morti. Il tutto per un pugno di miglio.
Il tessuto sociale e famigliare al centro di Onibaba è distrutto: la più giovane delle donne è rimasta vedova del marito Kichi, figlio dell'altra. Quando la vedova cede al rozzo corteggiamento del compagno d'armi del marito, sfuggito all'insensata carneficina dei signori feudali, il delicato equilibrio della sopravvivenza si spezza. La madre di Kichi cerca di dissuadere la giovane donna con ogni mezzo.
Il film di Kaneto Shindo mette in scena uno stato di natura quasi insostenibile: i protagonisti di questo film dell'orrore sociale non possono che pensare al loro prossimo pasto. Come in altri film dell'autore, le donne sono le vere protagoniste e lo sviluppo della trama dipende dalle loro azioni. Le due protagoniste si muovono come predatori, adocchiano le potenziali vittime senza alcuna ferocia né compassione, ma con la determinazione animale di chi vive nella violenza. In questo mondo, si uccide perché non esiste altra scelta per vivere. Il mondo di Onibaba è fatto di fame, egoismo, passioni incontrollabili.
L'anarchia è nelle capanne, nei rapporti famigliari che si riducono a cibo e sessualità. Un completo ribaltamento della dimensione rituale della vita, tanto presente nella cultura giapponese quanto ostentata nei film che rappresentano l'altro lato della guerra e della cultura classica: i nobili, i samurai, gli imperatori e i fantocci. Questi ultimi saranno il bersaglio di Shindo in una delle sue opere più riuscite: Kuroneko.
La fragile esistenza dei tre protagonisti arriva a un punto di rottura quando un guerriero con il volto coperto da una maschera di demone si presenta alla capanna. La donna più anziana è sola e, per liberarsene, lo fa cadere in una buca. Decide di impossessarsi della maschera per spaventare la nuora e scoraggiare le sue escursioni notturne nella capanna dell'uomo. L'oggetto maledetto farà il resto.
Anche senza la maschera, Onibaba non perderebbe nulla della propria coerenza. La tragedia sembra inscritta nelle vite dei suoi personaggi, come in Ossessione di Luchino Visconti. La maschera demoniaca è un simbolo, un omaggio alla dimensione teatrale della messa in scena. E un discorso simile varrebbe per la buca, che apre e chiude il film. La buca è sempre stata lì, e in quella bocca nera giacciono le ossa di innumerevoli vittime. Sarebbe legittimo pensare, come lo spettatore, che sia la tana di un mostro. Shindo lascia la questione in sospeso, e la fossa assume la dimensione di una metafora aperta: una ferita nell'ordine delle cose, un cupio dissolvi verso cui gravitano tutti i mostri e i disperati che corrono tra l'erba alta.