Kill List
Un vero e proprio trattato sul fuori campo e sulla frammentazione del racconto: non l’orrore in scena, ma l’orrore della messa in scena
Matrioska di vicende incompiute e oscure, Kill List, secondo lungometraggio del britannico Ben Wheatley – giovane regista, affermatosi dapprima con video virali e spot pubblicitari di grande successo, per poi trovare spazio e opportunità sempre maggiori anche presso i grandi media mainstream, come la televisione e il cinema – si configura progressivamente, nel corso di uno sviluppo narrativo frammentato e sconnesso, come un vero e proprio trattato sul fuori campo, sull’ellissi, sull’allusione velata e senza conferme, dove personaggi apparentemente comuni ma dal passato nebuloso agiscono come marionette mosse da invisibili fili. La trama si dipana come un gioco a incastro, nel quale ogni elemento nuovo nella progressione del racconto si configura come una nuova porta – sempre ulteriore, mai definitiva – perennemente spalancata sull’abisso dell’inconoscibile e del non detto o, tutt’al più, socchiusa per lasciar intravedere il fioco bagliore di una luce,di cui non è dato riconoscere la fonte, né la consistenza, né tantomeno la capacità di illuminare l’ambiente, anch’esso ignoto, in cui si irradia.
La parte iniziale presenta alcuni elementi esteriori del kammerspiel, con un nucleo famigliare tipo – padre, madre, figlio preadolescente – in cui la quotidianità è raccontata impietosamente, anche se in modo volutamente convenzionale, come foriera, sovente, di conflitto e disagio: situazione economica precaria, vite personali alla deriva e preda dell’insoddisfazione, litigi perpetui, stemperati, a tratti, da rari momenti di tenerezza. L’entrata in scena di una seconda coppia scuote da subito il torpore e la staticità ossessivamente ripetitiva del contesto iniziale. Jay (Neil Maskell) e Shel (MyAnna Buring) ospitano a cena Gal (Michael Smiley), vecchio amico e compagno d’armi di Jay, accompagnato dalla sua nuova fiamma Fiona (Emma Fryer). I due nuovi arrivati fungono, inizialmente, da detonatori di nuovi scontri fra Jay e Shel, ma poi la loro presenza riesce anche a far rientrare l’ostilità e a calmare gli animi.
Il contesto fondamentalmente borghese fin qui delineato trova un primo scarto a partire dal dialogo che i due uomini tengono, in separata sede. Gal propone a Jay un lavoro: il loro compito sarà quello di individuare ed eliminare tre bersagli per conto di un fantomatico mandante, seguendo l’ordine di una lista, la kill list del titolo. La disinvoltura con cui si svolge il dialogo, l’ordinarietà dei due personaggi – mancanti totalmente del physique du rôle da eroi o da spietati assassini e forse, proprio per questo, ancor più credibili e umani – oltre alla quotidianità dell’ambiente domestico creano una grottesca dissonanza rispetto agli argomenti trattati. Emerge anche un riferimento ad una non meglio precisata “missione a Kiev”, il cui fallimento ristagna ancora nel ricordo di Jay e pare bloccarne le scelte nel presente. L’abilità di Wheatley, in questo caso, così come per tutta la durata dell’opera, si situa anche, forse soprattutto, nella naturalezza e fluidità con cui riesce a fondere, rendendoli verosimili, elementi eterogenei e disarmonici. Jay accetta la proposta dell’amico – le sue finanze non gli concedono altra scelta – e il “lavoro” ha inizio. Il lato quotidiano e umano della vita di una normale coppia di sicari è tratteggiato tramite una regia sobria, nella quale il grottesco non emerge a causa di forzature o esagerazioni, ma sembra nascere naturalmente dallo svolgersi degli eventi e dalle azioni dei personaggi che li innescano. Dopo che i due killer hanno preso contatto col mandante degli omicidi (Struan Rodger), inizia il lavoro vero e proprio.
Il primo target è un prete, il secondo un bibliotecario. Nessun movente, nessuna motivazione addotta dal mandante. Jay e Gal, prima di eliminare il secondo bersaglio, rintracciano un archivio di video, che contengono immagini di violenze su minori – rigorosamente fuori campo, rispetto al punto d’osservazione dello spettatore – che gettano Jay in uno stato di ira forsennata. L’uccisione del bibliotecario da parte di Jay è furiosa – pestato a morte con un martello – mentre Gal ne ispeziona l’abitazione. Prima di morire, l’uomo fa i nomi di altre due persone coinvolte nella realizzazione dei video e Jay decide di eliminarli, anche se non rientrano nell’elenco della lista. Una volta eliminati questi due ulteriori individui – si noti come sia sempre Jay l’esecutore materiale, che, omicidio dopo omicidio, sembra provare una macabra gioia, sempre crescente, nell’uccidere – i due sicari scoprono, fra i materiali rintracciati nella casa del bibliotecario, dei documenti che li riguardano (un file cartaceo sulla fantomatica missione a Kiev, della quale non viene rivelato comunque alcunché allo spettatore, assieme a delle foto appena sviluppate, che li ritraggono mentre sono in appostamento per portare a termine gli obiettivi contenuti nella kill list). Inutilmente i due tentano di abbandonare un compito che sta sfuggendo di mano e che si sta rivelando sempre più pericoloso, dai risvolti sinistri, oltre che capace di far emergere, inaspettatamente, la natura ferina e violentemente psicotica di Jay, in altre circostanze dipinto, ad esempio, come amorevole padre: durante un ulteriore colloquio col mandante – questa volta spalleggiato da altri individui, elemento questo che conduce a ipotizzare la presenza di una vera e propria associazione dietro agli omicidi – vengono a sapere di essere sorvegliati e che qualsiasi tentativo di rescindere il contratto verrà fatto pagare con la loro vita e con quella dei loro cari.
Il terzo obiettivo è un parlamentare, che dovrà essere eliminato nella sua dimora in campagna. Durante l’appostamento per completare l’ultima parte della missione, Jay e Gal si imbattono, nel folto del bosco e durante la nottata, in una cerimonia primordiale, un vero e proprio rito sacrificale pagano – la cui vittima sarà una donna, vestita con abiti cerimoniali, che verrà impiccata – officiato da una specie di sacerdote in una tonaca bianca e col capo incappucciato, accompagnato da un folto gruppo di adepti, parte nudi, parte ricoperti da una tonaca bianca o vestiti elegantemente, parte a volto scoperto, parte col viso ricoperto da una bizzarra maschera di vimini intrecciati; fa anche mostra di sé una figura femminile sul cui capo troneggia, ad altezza occhi, una corona di spine. In questo caso, in un’opera già caratterizzata, in tutto il suo svolgimento, da continui sbalzi nella disposizione delle tessere del racconto, lo scarto è deciso e fulmineo: in un’unica sequenza, Wheatley non solo innesca un notevole colpo di scena, ma soprattutto stravolge completamente la cosmologia del proprio mondo diegetico, affidandone le sorti, repentinamente, ai rituali ancestrali di una congregazione, che affonda le proprie radici in un passato apparentemente sepolto e dimenticato. I due sicari vengono scoperti e braccati. Solo Jay riesce fortunosamente a salvarsi – dopo che Gal gli è spirato fra le braccia – fuggendo in auto e trovando rifugio nel cottage isolato dove sono nascosti la moglie e il figlio, per timore di azioni violente da parte dei misteriosi mandanti. La nuova dimora della famiglia di Jay viene rapidamente rintracciata e assediata dai membri della confraternita nella quale i due killer si erano imbattuti nel folto del bosco. La parte finale si trasforma in un incubo a occhi aperti. Vana è la resistenza di Jay e della moglie – anch’ella donna d’azione ed ex membro della Guardia Nazionale svedese – e così Jay viene fatto prigioniero (mentre della moglie e del figlio si smarriscono momentaneamente le tracce), per poi venire costretto a battersi, in una specie di blasfema ordalia, con un essere deforme coperto interamente da un telo bianco. Jay ha la meglio e trionfa, ma la soddisfazione risulta effimera, giacché si trasforma subito in una beffa atroce, allorché scopre che, sotto il telo bianco dove si nascondeva l’avversario, si celano in realtà la moglie col figlioletto in groppa, entrambi colpiti a morte dal suo pugnale. Jay, grottesco vincitore del confronto e sgomenta figura allo sbando, viene acclamato dalla folla ebbra, fra le cui file è possibile distinguere Fiona, cioè la donna di Gal, assieme al capo dell’associazione che aveva commissionato i delitti.
Wheatley costruisce una trama liquida e sfuggente, con continui cambi di registro narrativo, slittamenti di prospettiva e voragini oscure, nelle quali ogni tentativo di ricostruzione di un filo conduttore risulta vano. Il tutto viene, però, custodito e riequilibrato dai numi tutelari di uno stile rigoroso e di una messa in scena coerente, che fungono da veri e propri vettori di senso, là dove la narrazione tesse esili e fragili fili, continuamente interrotti o spezzati. Quando la focalizzazione del racconto è puntata sui personaggi, predominano inquadrature ravvicinate, talora traballanti, che, abbinate al frequente uso di focali lunghe, in assenza di profondità di campo, e all’uso di primi piani e dettagli, finiscono col privilegiare solo ciò che è prossimo all’obiettivo, rendendo lo sfondo, o le figure in secondo piano, pure sfumature di colore oppure ombre malferme: una perversa allucinazione audiovisuale, nella quale si può riscontrare un’estrema contiguità, forse addirittura una corrispondenza piena, fra il significante e il significato. Diversamente, le rade sequenze di raccordo in esterni privilegiano campi lunghi, in cui le figure umane risultano del tutto assenti, oppure circondate da un orizzonte incombente o inquieto (in più occasioni si possono notare l’erba o le fronde degli alberi mossi dal vento). Inoltre, se nella prima parte del film prevale la luminosità degli ambienti esterni o interni (i primi due omicidi avvengono in piena luce), mano a mano che la discesa nell’incubo procede, a imporsi sono le zone di buio, in ambienti male illuminati o completamente immersi nella tenebra. Oltre a ciò, è possibile notare come, nella parte finale del film, le uniche fonti luminose siano costituite dalle fiaccole dei membri della confraternita, una vera e propria regressione alla dimensione primordiale, anche dal punto di vista simbolico: i veri vincitori sono i portatori di una luce antica, quella della fiamma, la più originaria forma di energia e calore, elemento prometeico per la (ri)nascita dell’uomo. Un discorso analogo a quello relativo al comparto iconico può essere condotto a proposito dei dialoghi: sempre allusivi, mai esaustivi, anch’essi, così come le immagini, non mettono a fuoco il senso unitario e la continuità diegetica di una vicenda, che si alimenta solo di opachi e sconnessi frammenti di presente.
Kill List risulta in più disseminato di segni, indizi e simboli puramente allusivi ed evocatori di significati indiscernibili, abitatori sepolti del ventre del fuori campo. Si tratta di veri e propri enigmi, costruiti ad arte da Wheatley per continuare a scavare nella mente dello spettatore, anche dopo il termine della visione: il simbolo della setta, ad esempio, lo si ritrova più volte, sia inciso da Fiona sul retro dello specchio nel bagno della casa di Jay, durante la cena nella parte iniziale, sia nella documentazione rintracciata da Jay e Gal nell’abitazione del bibliotecario; nel momento della firma sul contratto per la missione di morte, il mandante apre un profondo taglio, con una lama affilata, nella mano di Jay e poi nella propria, a sancire un inaspettato e straniante patto di sangue; la fantomatica missione a Kiev viene più volte citata come uno dei fallimenti di Jay; la famiglia di Jay e Shel viene a più riprese fatta bersaglio di macabri scherzi, come l’impiccagione del gatto di casa; le prime due vittime della kill list, prima di venire eliminate da Jay, lo guardano con gratitudine e poi lo ringraziano per la loro morte; anche la moglie morente di Jay scruta il marito e gli sorride, in un ghigno che pare beffardo. Forse Jay altro non è che un prescelto, il quale, forse a causa della sua naturale e selvaggia propensione alla violenza, oltre che della sua disturbata, ondivaga e debole personalità, subisce un vero e proprio percorso iniziatico inconsapevole, attraverso i passaggi obbligati del patto di sangue, dell’obbedienza, della perseveranza, della purificazione dai fantasmi del passato, della (auto)distruzione del nucleo famigliare originario, per poter accedere, infine, alla grande famiglia costituita dalla confraternita. Un’ipotesi di senso, quest’ultima, che non chiarisce comunque i molti interrogativi e le innumerevoli zone d’ombra di un’opera concepita e costruita come un incubo realista in immagini, nel quale ogni elemento significante scivola sull’altro, contaminandolo e alterandolo, senza riuscire a conferirgli una nuova, magari anche mostruosa, identità.
Kill List si rivela come un corpo filmico in-forme, in attesa di essere plasmato da chi guarda, lo spettatore, non più solo cavia passiva di esperimenti, più o meno riusciti, di ricerca audio-visuale e neppure mero osservatore regredito narcisisticamente all’identificazione con i personaggi di una vicenda rassicurante, in quanto definita e auto-sussistente, come accade nel racconto di impianto tradizionale, bensì individualità (inter)attiva, immagine-cervello di un dispositivo di (non)senso, nel quale la controparte concreta, corporea – il film stesso – risulta scomposta o, meglio, de-composta eppure vitale, film-fenice, film-zombi, che rinasce più e più volte dalle proprie spoglie e sempre in nuove fisionomie, con identità diverse e cangianti, mai totalmente riconducibili alla sintesi e all’unità di un senso univoco. Non un film dell’orrore – ne mancherebbero, d’altronde, alcuni presupposti stilistici e tematici essenziali – ma un film-orrore, un film-mostro, la cui aberrazione nasce proprio dalla sua congenita deformità/difformità e ne trae alimento: un’entità cinematografica irriducibilmente aliena.