High-Rise

L’incontro tra Wheatley e Ballard delude le aspettative, con un film pavido e superficiale che banalizza la materia di partenza spegnendone ogni carica eversiva e politica.

L’incontro prometteva scintille. Da una parte uno dei romanzi più riusciti di uno scrittore caustico, feroce, capace come pochi di evidenziare nodi cardine della nostra contemporaneità; dall’altra uno dei registi europei più interessanti del momento, abile manipolatore di generi e ottimo tecnico della macchina da presa. Da una parte James Graham Ballard, dall’altra Ben Wheatley. E invece, senza tanti giri di parole, High-Rise delude, intrappolato in una visione filmica che banalizza, edulcora ed infine disinnesca la rovente materia di partenza.

Uscito nel 1976, High-Rise di Ballard fu una delle prime narrazioni ad interessarsi ai nuovi stilemi dell’architettura contemporanea, guardando in particolare a quell’appiattimento postmoderno di ogni distanza così fortemente ricercato dai nuovi complessi residenziali, giganti di acciaio e cemento e vetro nei cui molti ventri vengono ospitati sempre più servizi riguardanti i vari aspetti della vita quotidiana, svago o necessità che sia. In uno di questi grattacieli ultramoderni Ballard cala il suo microcosmo umano, ricostruzione politica e sociale della società attraverso una comunità di centinaia di persone suddivisa dal basso all’alto del complesso secondo rigide divisioni di classe.

Oggi penseremmo ad uno Snowpercier in verticale, se non fosse che per Ballard questo paese in miniatura diventa il set laboratoriale di un esperimento narrativo atto a dimostrare come bastino soltanto poche interferenze all’ordine costituito per far scivolare rapidamente la nostra società in un grumo anarcoide e deflagrante di violenza e follia. Sulla spinta di una rivalsa sociale mai sopita, esplode ogni freno inibitorio, salta ogni regola prestabilita, evapora ogni morale, in una discesa allo stato primordiale che non prevede eccezioni. Nessuna rivoluzione ideale qui, solo istintualità libera e distruttiva.

Cosa resta di tutto questo caos nel film di Wheatley? Ben poco purtroppo, o almeno soltanto le sue manifestazioni più superficiali, anche fortemente alleggerite rispetto alla carica eversiva e politica del testo di partenza. Il regista inglese e la sua compagna Amy Jump (che qui scrive da sola la sceneggiatura dopo aver partecipato alla stesura di Kill List) firmano infatti un film molto pavido, che si accontenta di restituire un caos ordinario, normalizzato, mai autenticamente disturbante, in cui la carica politica di Ballard evapora nel nulla.

Wheatley soprattutto sembra confondere Ballard con Bret Easton Ellis, e il suo sguardo diventa chirurgico, asettico, davvero troppo pulito per l’emersione di lordura umana e materiale che invade il condominio. Di certo Wheatley non è il primo venuto, e la sua gestione dello spazio scenico (con tanto di citazioni kubrickiane) è sempre molto consapevole; tuttavia questo talento visivo sembra prendere la direzione sbagliata, quella di immagini davvero troppo glamour, troppo lucide per restituire il fiele di disperata liberazione animale che sconvolge la comunità del grattacielo.

Quest’attenzione estrema al particolare e all’effetto visivo si rovescia poi in una struttura filmica complessiva davvero sbilanciata, azzoppata da una sceneggiatura che non solo alleggerisce il testo di partenza, come detto, ma non riesce neanche a rispettarne la coesione interna: incapace di seguire gli archi dei suoi tre personaggi principali, di restituire con credibilità l’escalation di violenza, di lavorare sul tempo della narrazione, High-Rise sembra un film nato male e proseguito nella stessa direzione.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 25/11/2015

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