Revolution Of Our Times
Kiwi Chow offre un'opera militante che, inquadrando i tragici eventi di Hong Kong del 2019, tenta di invocare un aiuto e chiama alla rivoluzione, attraverso una quantità esorbitante di immagini prodotte da chi la rivoluzione l'ha vissuta per strada. "A film by hongkonghers".
È un’opera totalmente, integralmente militante, Revolution of our times. Se la sua materia è l’accesa rivoluzione che ha investito oltre due milioni di hongkonghesi contro la politica liberticida del governo – culminata con l’estradizione dei condannati verso la Cina, nel febbraio 2019, e un azzeramento sostanziale degli accordi sino-britannici –, il regista Kiwi Chow decide di non adoperare una lenta immersione dentro di essa, né concede alle immagini e allo spettatore alcun temporeggiamento. Le didascalie sovrimpresse nei primi secondi sono già una descrizione sufficiente per poter poi procedere speditamente verso le oltre due ore e mezza del montato. È già rivoluzione, e bisogna comunicarlo con un’urgenza feroce. “Revolution of our times” era ed è persino il motto di questa rivoluzione; implica che, da subito e sempre, lo sguardo di Kiwi Chow sia schierato, non super partes, o comunque neanche intenzionato a osservare le implicazioni, a offrire congetture a proposito delle mosse del governo. La Cina sta riallungando la sua mano sulla città-stato e su Taiwan, e non ha mantenuto la promessa sul suffragio universale discussa oltre dieci anni prima. Come a dire: “non c’è spazio per le mediazioni e le meditazioni”.
La mole di immagini è esorbitante, prodotta non solo dal regista, appunto militante e di quella folla partecipe, ma dalla convergenza di una infinità di altre macchine, videocamere, smartphone, soprattutto action cam disposte sugli elmetti. Da qui, ha pienamente senso che sui titoli di coda si faccia prima di tutto menzione di “A film by hongkonghers”. La pluralità di sguardi partecipativi dà sostanza e fisicità alla pluralità della rivoluzione. Kiwi Chow non può fare uso delle riprese delle videocamere di sorveglianza che catturano la brutalità della polizia, ma ovunque c’è un occhio pronto a offrire il suo sguardo e dare visibilità al non visto, per strada, sul tetto, dietro un parapetto improvvisato. Forse non c’è titolo che sia stato montato su una pluralità di vedute così capillare. Di minuto in minuto si moltiplicano le immagini che riproducono un’azione e una reazione tra loro sempre molto simili: il lancio dei lacrimogeni e la difesa con gli ombrelli; quindi la fuga convulsa, l’arrivo delle auto nel tentativo di mettere in salvo gli animi più riottosi, e lo svuotamento delle strade che mostra sempre uno scenario di distruzione e desolazione. Nella loro somma e nella loro somiglianza, d’altra parte emerge anche l’impressione di un accumulo confuso, rispetto al quale una direzione è offerta solo dalle didascalie e dalle interviste che tentano di raccogliere episodicamente le immagini.
I corpi e i volti dei protagonisti sono spesso sostituiti con quelli di attori, perché messi in fuga, o finiti in prigione, o persino dispersi. E forse questo è un bene per la resa patetica dell’opera, che ha ovviamente una funzione, una missione da assolvere, cioè tenere assieme, aggregare, dare in fiamme una prateria partendo da una scintilla (come dirà, alla Mao Zedong, uno dei protagonisti), dopo che il grande spirito della rivoluzione pare essersi affievolito, a seguito della disfatta dell’occupazione del Politecnico. È giusto che sia il cinema il luogo deputato a questa riaccensione e moltiplicazione. L’afflato della grande epopea incalza e si diffonde, chiaramente, sul finale, in cui la colonna sonora si fa più presente, più lirica e tragica. Il rastrellamento si capovolge nel commiato, nel pianto disperato, e poi ancora nell’invocazione di un trionfo futuro. Kiwi Chow monta le immagini di un popolo che canta e suona come un’unica grande banda, alzando al cielo il grido di una “rivoluzione dei nostri tempi”, come Petra Costa in Edge of Democracy (2019), quando aveva reso quasi apocalitticamente le invocazioni alla speranza che l’ex presidente del Brasile Lula rivolgeva verso il suo popolo in lacrime.
E se a fungere da baluardo della libertà diventano, in ultimo, le conquiste e la vicinanza geografica ed empatica di Taiwan, il cui rischio di uno scacco da parte della Cina resta dietro l’angolo, non vi è allora dubbio che questo brivido moltiplichi lo spessore delle immagini, le renda più esposte, più impellenti, più partecipate, la loro assimilazione più necessaria.