La cacciata del Malvento
Uno sguardo partecipe e affascinato sui rituali arcaici della Lucania tra superstizione e magia
Il regista lucano Donato Canosa, che vive e lavora a Torino, torna nella sua terra d’origine per girare il suo primo documentario, La cacciata del Malvento. E’ proprio il luogo scelto, in questo caso, ad essere in un certo senso il fulcro dell’intera ricerca di Canosa, tutta volta ad esplorare le antiche tradizioni popolari tra magia e superstizione.
Che il Sud in particolare riesca ancora oggi ad offrire, nel panorama etnografico italiano, un prezioso e fecondo residuo di quel pensiero arcaico, irrazionale e magico che sta precipitosamente scomparendo, è cosa nota; ed è appunto da questa consapevolezza che il regista prende le mosse per intervistare alcune anziane donne di Grassano - un piccolo paese della campagna lucana - assieme ad alcuni ragazzi che da queste antiche usanze sono incuriositi e affascinati: alcuni di loro le osservano con piglio antropologico, altri vi sono immersi e le conciliano placidamente, quasi attraverso un atto di fede, con una quotidianità che muove invece secondo – opposti – principi logico-scientifici. Ma le vere (e ultime?) depositarie di questi rituali in via di sparizione sono anzitutto le anziane del luogo: sono loro che sanno come allontanare il malocchio degli invidiosi - che procura mal di testa e spossatezza - con sale, acqua e parole magiche; come guarire le malattie più fastidiose, recitando la formula giusta, presso un crocevia all’alba o al tramonto; o, ancora, come scongiurare il maltempo, tracciando misteriosi segni nell’aria con un coltello. Accompagnato a volte dalla propria madre, chiamata a far da mediatrice tra l’occhio meccanico della videocamera e questi antichissimi eppure vividi saperi contadini, il regista si introduce con rispetto e discrezione in casa di chi custodisce questi segreti cercando di carpire pensieri, timori, ricordi e atmosfere. Ne viene fuori un ritratto fluido, sintetico, che non sembra mosso da una volontà analitica o dall’urgenza di mettere a punto un’indagine serrata e onnicomprensiva, ma si configura piuttosto come un omaggio affettuoso, partecipe, incuriosito, consapevole tanto del valore quanto della fragilità dell’oggetto di riflessione.
Quello di Canosa è un cinema lieve, che sfiora e accarezza, nel tentativo di raccogliere dettagli, sussurri, piccoli gesti; un cinema che si muove, per così dire, al servizio della realtà, una realtà liminale eppure ricca, contraddittoriamente rimossa e al contempo – sull’onda di certe tendenze dell’etnografia e soprattutto dagli anni Settanta in poi – esaltata e perfino idealizzata. Ma, diversamente dallo sguardo etnografico, che è sempre “esterno” e necessariamente raffreddato, lo sguardo registico qui non rinuncia alla soggettività, non vuole rimarcare nettamente un distacco critico e tuttavia in ultimo sospende ogni giudizio; perché, in fondo, La cacciata del Malvento sceglie di accogliere e far convivere letture diverse e dicotomiche della materia trattata: sono, queste, le letture di coloro che offrono i propri pensieri e i propri volti, rivelando uno stato di cose complesso e non scontato. Se una delle donne più anziane del paese si appella, sorprendentemente, alla “scienza” – come a un sapere supremo, o a una soluzione definitiva – mentre una giovane ragazza si dichiara “credente” rispetto alla dimensione magica di certi rituali, è chiaro fin da subito che il panorama in cui il regista si muove è tutt’altro che unidimensionale e banalizzabile. Rinunciare alla pretesa di una visione monodirezionale, significa dunque comprendere sapientemente l’irriducibilità del reale, le sue ambiguità, le sue incongruenze: ed è proprio questo uno dei maggiori pregi del film di Canosa.