''La commedia è l’apice della logica'' - Il ritorno di Mr Hulot
Il cinema brulicante di Jacques Tati riacquista la dimensione ideale del grande schermo in una rassegna con quattro capolavori restaurati
“Tutto, tutto si popola di mille forme diverse; e gli uomini si rinchiudono sicuri nelle loro casette e immaginano di essere signori del mondo. Povero pazzo
che giudichi ogni cosa ristretta perché‚ sei così piccolo!”
I dolori del giovane Werther, Johann Wolfgang von Goethe
Nella narrazione visiva più convenzionale, soprattutto quella del cinema classico hollywoodiano, c’è quasi sempre una netta separazione tra soggetto e sfondo. Quando un personaggio si sposta all’interno di un’ambientazione, la nostra attenzione si concentra sull’azione, su ciò che fa piuttosto che sullo spazio nel quale si muove. Ma le convenzioni, nell’arte come nella vita, sono camicie strette, recinti oltre i quali si snodano praterie di senso inesplorate, dove pochi, grandi sperimentatori si avventurano perché i propri occhi bulimici e le menti frementi possano trovar pace nella costruzione di nuovi linguaggi, di nuovi modi di guardare e spiegare sé stessi e il mondo. Essendo insieme a Bresson – nel giudizio non certo irrilevante di Marguerite Duras – uno dei “due giganti gemelli del cinema francese”, Jacques Tati non poteva che partorire uno sguardo cinematografico personalissimo, caratterizzato, come ebbe a dire Truffaut, da una grande autori(ali)tà.
A differenza di gran parte dei film contraddistinti da scelte narrative di stampo classico, dove il protagonista ruba tutta la scena, nei quadri cinematici di Tati il soggetto è tutto ciò che entra nell’inquadratura: è l’uomo con l’ambiente che lo circonda, i corpi caldi e gli oggetti inanimati, il dettaglio diabolico e l’insieme. L’attenzione dello spettatore non è mai indirizzata esclusivamente verso un singolo punto d’interesse; l’occhio, piuttosto, si sente libero di esplorare molteplici centri d’attrazione, come in un’enorme fiera, o un quadro di Bruegel il Vecchio.
Ecco perché è così importante guardare le sue opere su grande schermo. Un privilegio eccezionale reso ultimamente possibile da Ripley’s Film, in collaborazione con Viggo Srl, che porta sul grande schermo quattro capolavori del grande regista francese, recentemente restaurati da Les Films de Mon Oncle. Il primo è proprio quel Mon Oncle (1958) che da il nome alla compagnia che detiene i diritti dei suoi lavori, terza opera della sua filmografia. La seconda, dopo Les vacances de Monsieur Hulot (1953), in cui Tati interpreta il buffo personaggio con borsalino, impermeabile e pipa cui affida il compito di perturbare l’esistenza di borghesi annoiati nella speranza, spesso vana, di convincerli della semplicità genuina della vita, di sprigionare l’esprit, il senso dell’umorismo, che sarebbe in grado di bilanciare, appunto, umori sempre più ingrigiti dalla mancanza di sano divertimento, di riso sincero e di sorprese elettrizzanti.
“Molti si svegliano al mattino arrovellandosi su come aprire una porta o una finestra più rapidamente. Pochi pensano che non si dovrebbe prendere sul serio cose di questo genere, che senza risate la vita non sia poi così interessante”. Tati ha ribadito questo concetto più volte nel corso di svariate interviste: che senso avrebbe vivere in un mondo in cui la gente ha dimenticato il piacere di fischiettare mentre passeggia, di stupirsi o di ridere con gusto? In Mon Oncle i signori Arpel si prendono cura della casa o dell’azienda, delle auto, degli ospiti e della propria immagine ma sembrano dimentichi del loro “bene” più prezioso: il figlioletto Gerard. Con tutto ciò che egli rappresenta: il gioco, l’immaginazione fantastica, l’amore più semplice. E così il piccolo fugge dalla casa ipermoderna dove, paradosso dei paradossi, “tutto comunica”(è così che la signora Arpel presenta la nuova prassi dell’architettura abitativa alle amiche dei quartieri alti) ma nessuno comunica, il rumore assordante delle macchine impedisce qualsiasi dialogo e la cucina ansiogena ha perso persino la bellezza delle fiamme e sforna uova preparate chirurgicamente, da mangiare in solitario castigo.
Fugge via, come fa il suo povero cagnolino imbrigliato ridicolmente in una mise da lord, per gustare la libertà avventurosa e l’affetto che gli vengono negati, ritrovandoli negli scherzi con gli amici, nelle frittelle ricoperte di marmellata e zucchero gustate in aperta campagna, nella compagnia amorevole dello strampalato zio Hulot a spasso per la parte vecchia della città.
La mdp di Tati guarda le strade, le piazze affollate, gli uomini seduti al bistrot e le donne che scelgono la verdura. Mostra il mondo nella sua infinita ricchezza, ce lo restituisce con il brulichio ronzante della vita vera, col vociare dell’umanità che si incontra, parla, resiste, non più all’invasione straniera ma all’avanzata di un mondo nuovo, quello dei trente glorieuses (il corrispettivo francese del miracolo italiano) dove il tecnologico sta soppiantando il biologico e il consumismo genera un materialismo disumanizzante.
Interi quartieri sono in fase di ri-costruzione, di gentrificazione post-industriale, di imborghesimento: la cittadina di Mon Oncle è, come la Francia del trentennio che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla metà degli anni Settanta, in piena trasformazione sotto la pressione dell’urbanizzazione, dell’uniformazione e dell’automatizzazione innescata dal boom economico. In un’epoca in cui iniziano a dominare la plastica, fabbricata dal cognato, e gli elettrodomestici e gadget utilizzati dalla sorella, in un mondo che inizia pericolosamente ad accelerare verso il vuoto “centralismo della società dei consumi” che, come profetizzò Pasolini, diverrà sempre più imperante nei decenni a seguire, l’andatura esistenziale di Hulot è uno splendido elogio del non andare a tempo.
Nel momento stesso in cui tutti vorrebbero inquadrarlo (gli Arpel sono convinti che sia un outsider bisognoso di un “obiettivo”) con un lavoro alienante e una relazione forzata, Hulot mostra tutta la sua naturale resistenza all’omologazione. Strane protuberanze guasteranno la triste linearità del tubo rosso prodotto nella “Plastac” e gli faranno perdere il lavoro procuratogli dal signor Arpel, mentre una serie di imprevisti trasformeranno il perfetto déjeuner, architettato in giardino per trovargli moglie, in un disastro spassosissimo. Tati è l’unico a lasciarlo davvero libero di vagare per il quadro filmico, come i cani – reputati dal regista “attori straordinari” nel corso di un’intervista con Derek Malcom – che aprono e chiudono il film: Hulot è l’imponderabile ai tempi del calcolo programmato, l’entropia nel sistema ordinato, il gesto creativo nell’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Il suo stare al mondo, il suo rapporto con le cose, il suo stesso incedere viene da un mondo altro, quello che Tati aveva scoperto nel music-hall, nella commedia slapstick (e, quindi, nell’eredità della commedia dell’arte) e nel vaudeville. I suoi tempi sono quelli del comico, le sue gag strizzano l’occhio a quelle del muto, dove la gestualità importa più della parola. La grandezza di questo cineasta sta nell’essere riuscito da un lato a cogliere pienamente la lezione performativa delle prime commedie slapstick francesi, italiane e poi americane (Max Linder, Marcel Fabre, Ferdinand Guillaume, André Deed, Ernesto Vaser e, ovviamente, Chaplin, Keaton, i fratelli Marx, Mack Sennet), dall’altro a costruire uno stile inconfondibile grazie ad un controllo rigorosissimo sugli aspetti sonori e visivi.
“La commedia è l’apice della logica” e nasce essenzialmente dall’osservazione, amava ripetere Tati. Nella sua commedia tutto è profondamente e sapientemente costruito. I campi medi, lunghi e lunghissimi, ad esempio, permettono di mantenere la giusta distanza dai soggetti e di coglierne pienamente l’interazione con l’ambiente; suono e colori vengono utilizzati come strumenti di direzione indiretta, di espressione, di veicolazione del messaggio. Il tubo rosso nella fabbrica diretta da Arpel, il campionario di tubature “verdi per giardino” mostrato con soddisfazione al compratore, le diverse zolle che compongono il giardino della villa, la nuova auto rosa, grigia e lavanda acquistata per celebrare l’anniversario di matrimonio fanno parte della satira sociale del film, ad esempio. Il suono, aggiunto separatamente dopo aver prima registrato le immagini mute, diviene una sorta di guida per stimolare e indirizzare l’immaginazione dello spettatore. Il suono mostra la personalità delle cose a prescindere dalla loro visibilità nel profilmico, si fa esso stesso immagine, evocazione. Senza il suono – ne è convinto un grande estimatore come David Lynch – i film di Tati perderebbero metà della loro vis comica. Il suo è, per dirla con Bazin, un “arredamento sonoro” tolto il quale la composizione delle sue opere risulterebbe irrimediabilmente monca, vacua: la mise en scene perderebbe tutta la potenza espressiva dell’arredo e della scenografia sonora.
Non è un caso che nelle commedie di Tati venga continuamente rimarcata la qualità materica delle parole, la loro sostanza acustica. L’enfasi passa dal contenuto e dal significato del discorso alla semplice articolazione fonetica, al loro essere ulteriore rumore, posto – anche qui non a caso – allo stesso livello degli altri suoni diegetici. Così come il gesto semina il germe dell’azione comica nella mente dello spettatore, il suono ne è il commento indispensabile e complementare: le gag visive vanno di pari passo a quelle sonore. Nonostante il fascino dell’arte di Tati provenga in buona parte dall’epoca del muto, a renderlo unico sono i suoni e i colori del presente che mette alla berlina. Il rumore angosciante del citofono, il gorgoglio sinistro dello spruzzo d’acqua del pesce-fontana, lo sbuffo soporifero del vapore industriale, il grammelot bofonchiato e incomprensibile di Hulot o il suono inconfondibile del suo macinino nel primo film in cui appare.
Il cinema di Tati è tutto in quel muretto sbriciolato che segna il falso confine tra il quartiere moderno degli Arpel e quello vecchio di Hulot. È un varco sempre aperto, un passaggio per chi non teme né l’uno, né l’altro mondo. Un portale attraverso cui i bambini, i cani e gli “Hulot” passano senza troppe remore e impedimenti perché liberi dalle gabbie dell’apparenza, da inquadramenti e inutili sofisticazioni. E va gustato come loro gustano la vita: come tende svolazzanti su piazze piene di libertà.