La guerra del maiale è il curioso titolo dell’opera prima di David Maria Putortì, lungometraggio basato sul quasi omonimo romanzo argentino dell’ormai scomparso letterato Adolfo Bioy Casares: Diario della guerra del maiale (Diario de la guerra del cerdo). Tuttavia va sottolineato che il libro fu pubblicato in realtà oltre quarant’anni fa, nel 1969, motivo che ci porta, fin da subito, a domandarci il perché Putortì abbia scelto di adattare, “oggi”, questa storia in un lungometraggio.
Tuttavia dopo la visione dell’opera il motivo non tarda certo a manifestarsi come chiaro e palese, e la contemporaneità della tematica contenuta ne La guerra del maiale salta immediatamente all’occhio. Lo script infatti narra di un’Argentina in pieno periodo elettorale e di una Buenos Aires nella quale i giovani vengono fomentati e indotti, dai media e dall’informazione, all’odio e alla violenza verso le “vecchie generazioni”, che divengono metafora di corruzione, ingiustizia, lobbismo e conservatorismo. Tuttavia il passo ulteriore, e inquietante in un certo senso, è quello che vede per l’appunto i giovani argentini oltrepassare il contingente politico. Essi infatti estendono il proprio odio al concetto stesso di anzianità, vista ormai come un male assoluto, incurabile e da estirpare.
Non curandosi più, dunque, dell’ontologica differenza tra gli individui, la città cade vittima di una deleteria demagogia opposta alla vecchiaia, vista come un veleno, che i giovani fanno poi populisticamente e ingenuamente sfociare in assurdi atti di violenza (financo l’omicidio) giustificati in nome di un’ideale ma folle rivoluzione, nella quale appunto il maiale (e l’accezione negativa dei suoi connotati) viene usato come metafora negativa e spregiativa per indicare l’uomo vecchio, anziano, parassita e peso della società. Viene così annichilita e soverchiata l’idea del “vecchio” come individuo di inestimabile saggezza, buonsenso e conoscenza; il “vecchio” va distrutto, indistintamente eliminato per fare largo ai giovani, (un tema, questo, che non può non ricordare il meraviglioso capolavoro cinematografico di Kinoshita, La leggenda di Narayama) indotti semplicisticamente a radere al suolo ogni cosa. Emblematica in questo senso la frase espressa da un “vecchio” durante il film: “quand’ero piccolo vivevo in questo quartiere, adesso hanno buttato tutto giù”.
A questo punto, ricollegandoci alla domanda che ci siamo posti in precedenza, è evidente che di paralleli con l’appena passata stagione elettorale e politica Italiana (ma anche e forse soprattutto con l’ambiguo panorama governativo odierno) ce ne sono, per usare un eufemismo, più di un paio. In questo senso sarebbe senz’altro interessante e costruttivo intavolare, alla luce dei collegamenti summenzionati, una riflessione sulla nostrana scena politica, ma ciò trascenderebbe inevitabilmente i doveri e gli oneri (per non parlare dello spazio) di un articolo di questo genere, e rischieremmo, inoltre, di imbatterci nell’affatto piacevole eventualità di incappare, per eccesso di zelo, in soliloqui retorici e senza diritto di replica. Lasciamo dunque, con piacere, che certe considerazioni trovino il loro spazio nella dimensione loro più adeguata ed opportuna: il dialogo, mentre noi ci accingiamo invece ad approfondire responsabilmente gli aspetti estetici e cinematografici dell’opera. Apriamo però, prima delle dovute considerazioni, una parentesi necessaria per sottolineare che l’opera di Putortì è stata accolta nel corso degli ultimi due anni in riconosciuti festival cinematografici internazionali, tra i quali il Festival des Films du monde de Montrèal, Mostra de Cinema Italìa de Barcelona e Rencotres Du Cinema Sud-Americain. A queste informazione va ad aggiungersi il fatto che Putortì vanta una sostanziosa esperienza pregressa come aiuto-regista, al fianco di registi italiani e non, tra i quali spicca per le sue influenze (per ammissione dello stesso Putortì in un intervista) il gigantesco nome di Marco Ferreri.
Ecco spiegato dunque come, in parte, Putortì sia stato in grado di sostenere, vista la tematica affatto leggera dello script, un lungometraggio che si avvicina alle due di durata. Un compito certamente non facile per un’opera prima, ma figlio di una libera scelta che, alla fine dei conti, sembra aver superato la prova – salvo qualche scivolone. Scivoloni che, senz’altro dalla seconda parte in poi, lasciano il film in bilico su un ritmo piuttosto lento (ma non contemplativo) che minaccia di far precipitare l’opera da un momento all’altro. Tuttavia la soglia dell’attenzione e dell’interesse valica raramente il confine del precipizio (soprattutto nei primi settanta minuti, che riescono a sostenere, compito affatto facile, la gravità della trama) e questo fondamentalmente grazie alla bravura del regista, il quale compone immagini bilanciate e ben proporzionate, nelle quali riscontriamo competenza, professionalità e buona conoscenza del mezzo e delle sue possibilità. La fotografia, pure, è ben curata e il tutto si incastra piuttosto agevolmente, inducendoci a vedere Putortì più come un regista con già un paio di titoli all’attivo piuttosto che al suo esordio. Nelle sequenze oniriche, quelle dilatate e nei rimandi grotteschi (uno su tutto la maschera da maiale della “compagna” di Isidoro) si avvertono concretamente le possibili influenze di un certo Ferreri, e di quel conseguente filone di cinema socio-antropologico (del quale La guerra del maiale è senza dubbio un’espressione) volto ad esaminare la condizione esistenziale dell’uomo moderno, ormai strumentalizzato da un sistema perverso.
Tuttavia proprio questi echi riproduttivi si rivelano essere, legati come sono a una concezione passata di costruire e intendere il cinema, il tallone d’Achille de La guerra del maiale. Infatti, seppur, lo ribadiamo, ben confezionato e professionalmente girato, nella visione si ha sovente l’impressione di osservare un’opera esteticamente e ritmicamente più datata, nella quale la costruzione delle immagini non riesce (o non tenta?) a dire nulla di nuovo a livello estetico/registico, appesantendo dunque l’opera tutta. Ad ogni modo sottolineiamo che, ovviamente, questa non è certo una colpa, dato il fatto che nel cinema contemporaneo anche registi di caratura, talento ed esperienza internazionale faticano a dire qualcosa di nuovo col mezzo in questione, e pretendere che Putortì ci riuscisse con la sua opera prima è semplicemente chiedere troppo.
Unici veri nei, invece, sono la sequenza (piuttosto fine a stessa e al suo manierismo) dell’ospedale, che vede entrare in gioco un forzato e improbabile medico i cui connotati grotteschi e inquietanti appaiono piuttosto gratuiti, e i minuti finali della pellicola, nei quali la trama scema piuttosto vistosamente, mentre le idee naufragano verso una conclusione stonata, esile e troppo macchinosa, che non rende molta giustizia alla prima tranche dell’opera. Ad ogni modo, dunque, un giudizio complessivamente positivo per La guerra del maiale e, soprattutto, per David Maria Putortì, il quale, speriamo, continui i suoi progetti futuri con la professionalità che abbiamo avuto modo di visionare ed apprezzare (magari osando un po’ di più), contribuendo a dare voce e man forte a una tipologia di cinema spesso, purtroppo, relegata in secondo piano.