La legge della tromba
L’esordio nel lungometraggio di uno dei più singolari ed eccentrici registi italiani, all’insegna di una rara libertà formale ed espressiva
Tra naïveté, ironia, gusto per l’assurdo e il grottesco, Augusto Tretti racconta, ne La legge della tromba, le disavventure di Celestino, uno spiantato che si improvvisa ladro – con poco successo – ma in fondo ha il cuore buono. Tanto che infine verrà illuso e preso in giro dalla bella Marta, che con lui si mostra pudica e gentile, salvo poi dileguarsi – nell’epilogo - con il ricco industriale Liborio, datore di lavoro del povero Celestino.
Un variegato gruppo di malcapitati accompagna il protagonista nelle sue imprese strampalate; prima il maldestro tentativo di rapinare un furgone portavalori, poi il carcere, infine il lavoro (senza contratto) nella grande fabbrica di Liborio chiamata - con metaforico sarcasmo - “trombificio”.
Se per ambientazione e atmosfere si sente – vagamente – l’eco di film come I soliti ignoti o Il bidone (al quale Tretti ha peraltro collaborato), la sostanza profonda di quest’opera singolarissima va rintracciata nel peculiare modus operandi del regista. Muovendosi a margine del panorama cinematografico italiano degli anni Sessanta, l’autore sviluppa una personalissima concezione del cinema che trova i suoi riferimenti non solo all’interno della settima arte (la critica ha citato Chaplin e Tati) ma anche in altri territori, dal punto di vista concettuale prima che visivo. Vengono in mente certe tendenze delle avanguardie artistiche di inizio Novecento, alle quali Tretti sembra implicitamente guardare per la volontà di mettere in discussione forma e sostanza dell’arte (nel suo caso, cinematografica) con provocatoria ironia. L’atteggiamento giocoso e assieme dissacrante del Dadaismo e di certo Surrealismo, per i quali la caricatura e il non-sense non suonano come innocui divertissement ma semmai come una dichiarazione di guerra (non tanto all’arte in sé, quanto a una certa concezione dell’arte) sono infatti il necessario presupposto della poetica di Tretti. Attraverso criteri espressivi squisitamente naïve – ma solo in apparenza ingenui – l’autore in primo luogo interroga il cinema come medium e oggetto artistico, e in secondo luogo mette a punto una sagace, divertita critica sociale e politica: la religione, l’esercito, la differenza di classe, ma anche l’atteggiamento miope e assieme rapace degli industriali, vengono ridicolizzati senza sconti.
L’apporto innovativo del film e il coraggio del regista stanno però, ancor prima che nei contenuti, nelle scelte formali audacemente libere e azzardate, nel segno della dissidenza e dell’autoaffermazione autoriale; scelte che se da un lato costituiscono il punto di forza di un lavoro di questo tipo, dall’altro lo condannano a restare al di fuori di certi circuiti, non solo commerciali: Tretti, con quattro opere in circa venticinque anni, seppur amato fin da subito da autori del calibro di Fellini, Flaiano, Antonioni, Guerra e Zavattini di fatto non possiede ancora il giusto spazio critico nella storia del cinema italiano.
Eppure, di fronte al suo eccentrico esordio La legge della tromba appare subito chiaro che dietro una parvenza di anarchia formale e povertà di mezzi il regista mette a punto uno studio sottile e articolato, come mostra ad esempio l’accurato trattamento del sonoro – usato in senso creativo e non mimetico - attraverso il quale passano la maggioranza dei riusciti effetti comici del film (valgano per tutti le preghiere dei fedeli, ridotte prima a una nenia insensata e poi a un vero e proprio ringhio bestiale). E’ proprio l’assoluta e rara libertà espressiva che permette a Tretti di orchestrare con inaspettato equilibrio gli spunti più diversi: giochi di parole e invenzioni tra il Dada e il fiabesco, parodie, caricature, travestimenti (come quelli dell’anziana cuoca di casa Tretti, che qui interpreta ben quattro ruoli, peraltro maschili), fino a soluzioni visivo-scenografiche che nella loro autodenuncia di finzione suggeriscono un discorso meta cinematografico (le trombe di carta, il razzo “giocattolo”).
Il cinema di Tretti parla insomma una lingua tutta sua – sovversiva, fresca, sapientemente sgrammaticata - rifiutando mediazioni e compromessi, e proprio in questo sta il suo fascino insolito e farsesco, la sua ricchezza espressiva, la sua carica eversiva.