La natura delle cose

Una riflessione sulla malattia e sulla morte che, abolito ogni possibile rischio di pietismo, si apre a speculazioni dagli echi filosofici

Raccontare la vita di un malato terminale di Sla senza ridurre il mezzo-cinema a cassa di risonanza di un dolore sordo e insostenibile, senza “ricattare” lo spettatore con il patetismo, senza scivolare mai – nemmeno per un attimo - nel pietismo: è questa l’impresa non facile della regista marchigiana Laura Viezzoli, qui al suo primo lungometraggio. Con grande tatto, estrema attenzione e rara empatia (tanto nei confronti del protagonista che dello spettatore) la Viezzoli porta la riflessione sulla malattia e sulla morte in un territorio tutto speculativo, instaurando con il suo interlocutore - Angelo Santagostino, malato di Sla dal 2008 - una sorta di dialogo dagli echi filosofici. Questo processo, che costituisce l’idea fondante, l’elemento nodale del film, ha una valenza doppia e ossimorica: da un lato distanzia lo spettatore, fa si che lo sguardo sulla sofferenza del protagonista sia giustamente mediato, controllato; dall’altro però – all’opposto – lo immerge definitivamente nel profondo di un dramma sentito e descritto non come contingente ma come universale: la necessità di lottare e resistere al male e la consapevolezza inevitabile della morte.

Angelo è completamente immobilizzato, eccezion fatta per gli occhi, specchio ultimo della sua ostinata e irriducibile volontà di comunicare. Solo grazie allo sguardo, con l’aiuto di un puntatore oculare e uno schermo, riesce a interagire con il mondo esterno. E’ la sua inarrivabile tenacia dunque che gli permette di accogliere il progetto della regista, che racconta il suo percorso e poi la sua malattia: gli studi di teologia e filosofia, il sacerdozio, poi la rinuncia ai voti e il matrimonio. A sessantacinque anni Angelo scopre di essere malato, e nel frattempo viene a mancare sua moglie. I due figli, che lo assistono costantemente aiutati da tre collaboratori, diventano forse l’unica ragione, per lui, di una battaglia quotidiana massacrante e indescrivibile.

Quella di Laura Viezzoli è una sfida ardua: sceglie il cinema, l’immagine, per raccontare qualcosa le cui manifestazioni concrete e materiali infine vengono tuttavia lasciate per buona parte fuori campo, perché la rappresentazione del dolore chiama in causa anzitutto la necessità di una scelta etica. Per descrivere l’abisso della sofferenza rispettando chi la prova, si deve abolire a priori, drasticamente, ogni indugio inessenziale, ogni rischio di morbosità. La Viezzoli lo fa dando priorità alla parola – una voce fuoricampo che esterna costantemente i pensieri di Angelo – alla quale associa sequenze fortemente evocative che fanno da controcanto all’immobilità forzata del protagonista. Filmati familiari o di repertorio, che raccontano cose perdute, trascorse, in un certo senso ormai precluse: le gite in famiglia, il contatto con la natura, la bellezza del cielo e del mare. Ma anche un mondo altro al di fuori di questo, ovvero lo spazio infinito, buio e calmo, il fluttuare leggero degli astronauti che da un lato sono liberi di muoversi in una vastità immensa, dall’altro – come Angelo – sono vincolati a dei tubi per respirare – e vivere - e costretti in un involucro che li imprigiona: per loro le tute, per il protagonista il corpo stesso, che non ubbidisce più alle volontà della mente ma solo agli imperativi della malattia.

Ma La natura delle cose ha anche il pregio non trascurabile di risollevare il problema ancora irrisolto del testamento biologico e dell’eutanasia, e di farlo con tutta la forza di un dramma che non è teorico o soltanto ipotizzato ma reale e concreto. Non a caso, il progetto del film - che ha richiesto un anno per essere realizzato – è iniziato proprio dai diari di Piergiorgio Welby, le cui incontestabili rivendicazioni riguardano molto da vicino la condizione di Santagostino, un uomo pervaso da una fede salda e radicata e forse proprio per questo lucidamente consapevole che nella “natura delle cose” è insita la loro finitezza, la cui mancata accettazione può essere causa – seppure con le miglior intenzioni - di assurde aberrazioni e tormenti ingiustificabili.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 30/04/2017

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