La patente, titolo ingombrante quello scelto per l’esordio al lungometraggio di Alessandro Palazzi, giovane regista romano: già commedia in atti firmata Luigi Pirandello e adattamento cinematografico all’interno del film ad episodi Questa è la vita, diretto da Luigi Zampa, sceneggiato da Vitaliano Brancati e interpretato da Totò. Nomi pesanti, artisti imponenti se posti dinanzi ad un piccolo film indipendente, ma non sono le aspettative né i confronti che incorniciano un’opera, che possono far di essa un successo od un fallimento, bensì le idee, la storia, la forza e la capacità di raccontarla. La patente è un film indipendente, già detto, ma la sua accezione d’indipendenza è totale, non limitata ai suoi costi né alle sue maestranze, non agli attori non professionisti né ai limiti artistici endemici che un’opera di tal genere si porta in grembo: La patente è d’essenza indipendente. Tutto nell’opera di Palazzi trasuda l’assenza di strutture che sorreggono il lavoro, in alcuni casi lasciando che si benefici di questa libertà, in altri prestando il fianco a lacune fin troppo palesi.
Una scuola per acquisire la patente di guida è l’ambiente del tutto, di vari micro-mondi che inseguendo una comune necessità si ritrovano a confrontarsi entro lo stesso ambiente. Rolando e Sergio sono i due amici che portano avanti l’attività, circondati da un insieme di personaggi che si fanno portatori di una serie di tematiche quanto mai sentite nella nostra società: la diversità e le difficoltà di integrazione, il disordine esistenziale mostrato attraverso orientamenti sessuali che faticano a trovare identità definite, la disoccupazione e le scorciatoie che possono condurre al raggiungimento dei propri fini. Tanti i temi toccati, pochi quelli che riescono a trovare un binario di plausibilità: non per incapacità né per negligenza, il vero problema del film di Palazzi risiede nella sua scrittura. Troppo esile e confuso il plot perché possa sfociare in un quadro dai contorni chiari e dalla luce viva, troppo sottili i suoi personaggi perché riescano a sviluppare un peso specifico che li lasci infrangere la porta della superficialità.
Uscito in sala lunedì 27 agosto nelle sale del Nuovo Cinema Aquila, La patente va obbligatoriamente inserito in quel magma oramai confuso – per la sua immensità – di film italiani che cercano di raccontare la nostra società senza mai azzardarsi a metter fuori il piedi dalle concilianti mura della commedia, come fosse l’unico luogo concepito al ritratto di ciò che siamo, come sia l’unica via di scampo ad una visione cinica degli eventi. Palazzi – non sappiamo se per volontà e per necessità – si adagia a questo diktat industriale, seppur dell’industria non faccia poi parte; ed è forse questa la colpa più grave che può essere imputate alla sua opera prima: l’incapacità di osare, o almeno di osare nella totalità. Già perché le idee interessanti non mancano, soprattutto dal punto di vista sonoro, dove una serie di trovare fuori dagli schemi lasciano intendere che dietro un velo d’inesperienza possa realmente celarsi una cortina d’idee, che possano magari slegarsi dalle catene della monotonia.