La ragazza della porta accanto
Dal genio di Ketchum, con la regia accorta e precisa di Gregory Wilson, una storia di (poco) amore, (tanto) odio e dolore, senza redenzione. La provincia americana e i suoi orrori.
L’orrore del quotidiano, la conseguente banalità del male, l’impossibilità di una palingenesi purificatrice capace di rinnovare l’umano alla radice: tutto questo è Jack Ketchum (pseudonimo dello scrittore statunitense Dallas Mayr), un autore che negli anni recenti ha visto crescere la fama del proprio nome, grazie anche ad alcune trasposizioni filmiche dei propri lavori, fra cui spiccano, fra le maggiormente convincenti, The Woman (Lucky McKee, 2011, opera co-sceneggiata dallo stesso Ketchum assieme al regista) e, appunto, La ragazza della porta accanto. Quest’ultima, così come il romanzo da cui è tratta, datato 1989, prende le mosse da un atroce fatto di cronaca, che sconvolse l’opinione pubblica americana nella metà dei ’60: l’uccisione, dopo innumerevoli torture e sevizie, della sedicenne Sylvia Likens in un quartiere di Indianapolis, ad opera dell’orribile donna che l’aveva in custodia e di svariati detestabili pargoli, progenie della donna o di altre famiglie della zona.
Nel romanzo di Ketchum, cambiano i nomi dei protagonisti, l’ambientazione spazio-temporale (intelligentemente, Ketchum decide di riadattarla all’epoca della propria adolescenza, spostando le lancette indietro di sette anni, scegliendo come sfondo il quartiere in cui era vissuto da ragazzino e descrivendo quindi un mondo a lui ben noto), mentre la parte principale dell’opera diviene il dietro le quinte dell’avvenimento ricostruito dagli inquirenti e poi portato in tribunale. Si tratta, tra l’altro, di una vicenda che riecheggia, in più di un punto, quella narrata da Scerbanenco ne I ragazzi del massacro (romanzo pubblicato nel 1968, appena tre anni dopo gli accadimenti di Indianapolis) e ripresa poi da Fernando Di Leo nell’omonimo film. Differentemente da Scerbanenco, che aveva scelto come ambientazione del proprio romanzo una zona degradata della periferia di Milano con i suoi abitanti, Ketchum sceglie, per il proprio, un quartiere medio, popolato da famiglie normali. Questa scelta, oltre a ricalcare le vicende reali cui il romanzo fa riferimento, rende l’insieme, ad un tempo, verosimile e aberrante. Il vero colpo di genio di Ketchum, però, si situa nella scelta di strutturare il racconto in prima persona, esprimendolo attraverso il punto di osservazione, la “soggettiva”, di uno dei protagonisti del fatto – quindi uno dei “ragazzi del massacro” – David Moran, vera e propria coscienza narrante.
Il film di Wilson non fa altro che rispettare lo spirito del romanzo, seguendone la trama e la costruzione narrativa a due piani temporali in modo fedele, ma senza risultare pedissequo, bensì arricchendo l’intreccio con una regia attenta, mai bassamente volgare, e sfruttando al meglio l’ottimo cast, ottimo soprattutto perché non composto da star, bensì da credibili volti e corpi normali. E, si sa, non c’è niente come la normalità che possa sgomentare, qualora essa esondi nel mostruoso, pur senza modificare i tratti salienti della propria fisionomia.
Il David Moran adulto (William Atherton), nell’incipit del film, rievoca i tragici fatti che lo portarono, nell’estate del 1958, a vedere sconvolta la propria visione del mondo, a smarrire irreversibilmente l’innocenza dei suoi dodici anni e a capire come, per l’essere umano, probabilmente non esista mai un’età dell’innocenza. Ritroviamo quindi il David di parecchi anni prima, adolescente (Daniel Manche), alle prese coi suoi compagni di giochi – a causa dei quali scoprirà che anche l’amicizia è ardua da trovare, difficile da mantenere e sovente carica di inaspettati voltafaccia o amare sorprese – e con la quindicenne Meg (Blythe Auffarth), la ragazza della porta accanto, il sogno di un indimenticabile (primo) amore, che si trasformerà progressivamente nel senso di colpa di una vita intera. E poi c’è Ruth (Blanche Baker), l’affabile e giovanile signora vicina di casa di David, che fa della propria abitazione il rifugio dei giochi dei ragazzini del quartiere – in primis David – amici dei propri tre figli maschi, giochi che ben presto sconfineranno in una realtà perversa, al di là di ogni finzione ludica o immaginazione.
La splendida Meg – rimasta orfana insieme alla sorella Susan (Madeline Taylor) in seguito a un incidente stradale che ne ha ucciso i genitori, oltre a lasciare a Susan grossi problemi di deambulazione – viene affidata a Ruth assieme alla sorella minore, in quanto parente, sia pure alla lontana. David abita nella casa adiacente, a due passi dall’estasi e dall’abisso. Meg, da subito, oltre all’invidia malsana di alcune coetanee, suscita la morbosa e inevitabile curiosità dei tre figli di Ruth oltre che, in modo unanime, di tutti gli adolescenti maschi, più o meno cresciuti, del quartiere. Se fino ad allora era Ruth a costituire il polo d’attrazione principale dei ragazzini della zona, per via dei modi materni anche se mai moralistici, per la sua gioviale liberalità nell’accogliere tutti, nel dispensare bevande proibite e disinibiti consigli sessuali, per la latente carica erotica di donna adulta, esperta e senza più marito, per la sostanziale affabilità e permissività in netto contrasto con la rudezza e severità educativa degli altri adulti, ora è Meg ad essere la più bella del reame, la più interessante, il polo d’attrazione di tutte le fantasie maschili di quella truppa di marmocchi. E Ruth non riesce a tollerarlo.
Nel progressivo deterioramento del rapporto tra le due rivali, emerge tutta la capacità di scrittura di Ketchum, insieme a quella di Wilson nell’adattarne la sostanza a un racconto filmico di un’ora e mezza. Se la violenza fisica subita da Meg supera i limiti dell’indicibile nell’ultima parte del film (anche se spesso lasciata efficacemente fuori campo dal regista), quella verbale e psicologica con cui Ruth attacca progressivamente la ragazza non le è da meno, anzi risulta, per molti versi, altrettanto sgradevole se non di più, proprio perché ambigua, insinuante, sottilmente sofistica, suadente e, a tratti, persino convincente, almeno per le labili menti dei ragazzetti, che diventano, quasi tutti con piena intenzionalità, complici della megera. Una neolingua di stampo orwelliano, che capovolge l’evidenza, annulla la verità, sottomette i fatti e i comportamenti all’obiettivo ultimo di Ruth: creare un apparato familiare repressivo e tirannico sotto il proprio comando per soggiogare definitivamente l’identità e la volontà inflessibili della coraggiosa fanciulla. Naturalmente, gli argomenti sono di facile presa sulle menti obnubilate dagli ormoni dei maschietti complici: Meg è una sgualdrina perché è bella e perché è femmina (e Ruth, evidentemente, se ne intende, in un’esplosione di sindrome dissociativa e di consapevolezza di sé), è cattiva perché non accetta i precetti educativi della mater lacrimarum o le goffe e violente attenzioni dei pargoli maschi, è colpevole perché riottosa e non supina, quindi va punita. In modo estremo.
Nel delineare questo poco idillico quadretto, La ragazza della porta accanto centra pienamente almeno tre obiettivi. In primo luogo, il film risulta un amarissimo apologo sulla condizione umana e sulla deriva malsana della sua natura: i giusti scarseggiano e quei pochi subiscono anche gli oltraggi della maggioranza ottusa e accecata dalla propria stoltezza, pavidità, malvagità. In secondo luogo, mette alla berlina l’istituzione familiare, non soltanto quella che fa capo a Ruth, ma quelle di tutto il quartiere e, per esteso, l’universale stesso della famiglia tradizionale, in un contesto ambientale dove tutti i contatti si risolvono in un’ambigua contiguità, che sconfina in una distaccata promiscuità, nello stare porta (accanto) a porta senza reale comunicazione, senza sapere cosa accada effettivamente fra le mura del vicino, pur non mancando la curiosità morbosa o il pettegolezzo, e dove persino all’interno del medesimo nucleo familiare – esempio principe la famiglia di David, coi genitori in silenziosa rotta – la mano destra non sa cosa faccia la sinistra, o finge di non saperlo. Un mondo dominato da adulti ottusi, indifferenti, ipocriti e da ragazzini mostruosi. Tante chiacchiere vane, accompagnate da un colpevole silenzio-assenso quando la situazione precipita. In terzo luogo, il film evidenzia, in modo esemplare, il meccanismo, sempre uguale a se stesso, con cui nasce una dittatura, a partire da una figura di riferimento, che incarna il potere e l’autorità. Dapprima si delineano piccole prevaricazioni per futili motivi; ecco poi comparire i primi segni di prepotenza gratuita e di abuso di potere; del conflitto fra il detentore del potere e il ribelle viene resa partecipe la società/comunità (i “due minuti d’odio” orwelliani), al cui ludibrio viene additato il dissidente, diventato ormai nemico pubblico; l’opinione del dissenziente viene ostracizzata e derisa con argomentazioni pretestuose; dalla derisione si passa alla minaccia concreta al ribelle e ai suoi cari (la menomata Susan, nel caso di Meg); in ultimo, dopo l’indebolimento psichico, si arriva alla sopraffazione fisica, fino all’annullamento della volontà dell’individuo e alla sua distruzione definitiva. Il conflitto fra Ruth e Meg si sviluppa seguendo esattamente tali coordinate, anche se va notato come la volontà della ragazza non venga mai meno, sino alla fine.
Come ultimo tassello, va evidenziato il modo in cui si struttura la narrazione attorno all’unico punto di vista presente nel film, quello del protagonista David. Essa si muove seguendo due coordinate, quella temporale del presente, carico unicamente dei rimorsi del personaggio, e quella del passato, effettivo manifestarsi della persistenza della semi-soggettiva attraverso la quale lo spettatore è costretto a seguire gli eventi. Se il conflitto fra presente e passato fa emergere un, complessivamente scontato, senso di colpa incancellabile per un personaggio parzialmente complice delle atrocità commesse e non sufficientemente deciso a redimersi se non quando è troppo tardi, il passato riattualizzato, che diviene il presente della narrazione ambientata negli anni ’50, cioè il cuore del film, mette alla prova severamente lo sguardo e il ruolo dello spettatore. Quest’ultimo si ritrova infatti a immergersi nella scomodità di un’identificazione secondaria con un personaggio in-attivo, impotente nonché per molti versi connivente con le malefatte compiute da Ruth e dagli altri ragazzetti, in una gara di rara e cieca violenza progressiva. Quindi, chi guarda il film diviene complice di quel pavido voyeur che è David, mise en abîme senza scampo del ruolo dello spettatore e delle sue perversioni: contiguità ingannevole, percezione a distanza, intangibilità della propria persona e della propria incrollabile, ma illusoria, certezza di stare, sempre e comunque, dalla parte della ragione, solo perché non ci si è sporcati le mani. Pensate di sapere cosa sia il dolore?