C’è un uomo di ferro che possiede un monopolio sull’acciaio. Un medio imprenditore di 56 anni che nella metà degli anni ’50, raccogliendo ferro per le varie fonderie della terra, decide di fare il salto di qualità. La grande imprenditoria lo aspetta. E lo fa. L’Ilva, acciaieria di Taranto, il più grande stabilimento di produzione dell’acciaio d’Europa, statale, viene privatizzata da quest’uomo. E l’uomo di ferro diventa così un imprenditore di acciaio. Quest’uomo e il suo gruppo, management affidato al 100% alla famiglia Riva, producono: acciaio grezzo, coils, vergella, tondo per cemento armato, barre-billette laminate, lamiere da treno, tubi saldati, tubi forma, travi. Oggi il gruppo possiede 38 stabilimenti produttivi nel mondo: stabilimenti presenti in Germania, Francia, Belgio, Spagna, Grecia, Tunisia, Canada, tra i quali spicca il polo produttivo di Taranto, l’Ilva appunto, che con i suoi cinque altiforni è il più grande di Europa. Quest’uomo e la sua lega, composta di ferro e carbonio, sono i leader assoluti del settore siderurgico in Italia, quarti in Europa e decimi nel mondo, con un fatturato di 8,56 miliardi di euro e circa 2600 dipendenti. Che numeri! Quest’uomo si chiama Emilio Riva e la sua eccellente lega è il Riva Group. Una mente alimentata a fosforo e zolfo in grado di respirare idrogeno e azoto, nel suo sangue si combinano manganese e titanio, ma chi è? Mazinga? Che ci protegge magari da tutti i mali superando ostacoli intergalattici? No! É solo un imprenditore con un cuore di stagno.
Il testimone di Migliore Documentario del Festival on-line viaemiliadocfest, nell’edizione attuale del 2011, viene dato al coraggioso lavoro di Valentina D’amico intitolato appunto: La svolta – Donne contro l’Ilva. Il titolo (La svolta) si rifà ad un racconto che Francesca Caliolo, una delle donne protagoniste di questo documentario, scrive dopo la scomparsa di suo marito, Antonino Mingolla, operaio dell’Ilva, morto soffocato dal gas mentre cambiava una valvola nello stabilimento siderurgico. L’ennesima morte bianca in una fabbrica che produce, tanto quanto i grandi numeri di produzione di acciaio, morti sul lavoro. Numeri bassi, non altisonanti come le statistiche della produzione di uno stabilimento, ma che preoccupano; numeri che distruggono una famiglia, anzi non solo una ma 43 famiglie; piccoli numeri che non arrivano a far statistica se paragonati alle cifre stratosferiche della produzione dell’impianto, ma ben più importanti. Senza una macchina in più riusciremmo a vivere, senza un treno riusciremmo a partire comunque, senza un figlio o un marito le nostre vite si fermano. Si bloccano. Il tempo non scorre quando intorno a noi manca qualcuno. Una vite si allenta, un ingranaggio smette di funzionare e quell’orologio batte sempre la stessa ora. In questo documentario alcune donne si raccontano, tutte hanno o hanno avuto a che fare con l’Ilva.
Sei sono le protagoniste: Francesca e Patrizia, mogli di operai morti all’Ilva; Vita, mamma di un giovane operaio morto schiacciato sotto un ponteggio; Margherita, ex dipendente sottoposta a soprusi e mobbing, licenziata con un escamotage ingegnoso ideato dal capo del personale, da un sindacalista del’Uilm e da un ragazzo con precedenti penali in scadenza di contratto. Una pedina, meno colpevole degli altri. Questa donna, non volendo rinunciare alla sua carica contrattuale di impiegata, conquistata con gli anni e il lavoro, si sente fortunata in un certo senso perché almeno è riuscita a scampare al trasferimento nella palazzina lager degli operai indesiderati dall’azienda: la palazzina del disagio e della frustrazione, la palazzina LAF, dove operai non desiderati dall’azienda venivano rinchiusi durante il loro turno di lavoro, controllati da un guardiano all’esterno e costretti a non fare niente. Uno spazio vuoto dove non lavorare, dove si diventava nessuno, scacciati come appestati – su direzioni superiori – dagli altri stessi operai. Dove se si aveva un’identità si faceva presto a perderla. Dove eri soltanto un peso per l’azienda che non poteva licenziarti. Dove aspettavano che fossi te a farlo. Alcuni tentarono addirittura il suicidio. Parla ancora Anna, finita sulla sedia a rotelle così, di punto in bianco, una mattina che affacciandosi dalla finestra guardò il fumo provenire dalla vicinissima ciminiera dell’Ilva. Infine Caterina, madre di un bambino autistico, forse dovuto al tasso di inquinamento che quell’azienda, grande per superficie tanto quanto mezza Taranto, produce. La loro è una voglia di riscatto, una necessità urlata nelle aule dei tribunali, nelle piazze durante le manifestazioni, attraverso lettere alle massime cariche dello Stato e qui, nel documentario di Valentina D’amico, giornalista professionista già autrice di video d’inchiesta come Morire di banca sull’usura, ed altri, storici e di indagine.
In questo, teso e semplice, inquadra e lascia che le persone si sfoghino, alternando immagini di momenti di lavoro nell’acciaieria. Introduce il tutto un attore, Alessandro Langiu che legge il racconto La svolta, interpretando Antonino Mingolla, l’operaio morto. Altro plauso va alla colonna sonora firmata da Angelo Losasso, Stefano Giaccone e, soprattutto, un gruppo molto ricercato che si accosta perfettamente con il tema sociale del documentario: gli Yo Yo Mundi, in grado di accordarsi perfettamente con gli intenti del film. Avendo aperto con dei numeri, attraverso delle paradisiache statistiche aziendali, vorremmo chiudere facendo altrettanto. I numeri di una fabbrica dal doppio viso, un’acciaieria che, se da una parte porge la mano amica dando lavoro – 20mila occupati fino agli anni 90, 13mila oggi – con l’altra mano disprezza l’uomo e modifica l’ambiente. L’Ilva produce da sola il 92% della quantità totale di diossina dell’Italia intera, il 10% di quella europea. E questo lo sanno bene i tarantini. 700 pecore, sono state uccise perché contaminate dalla diossina dato che pascolavano all’interno del limite dei 20km deciso dalla Regione Puglia. 30.000 tonnellate di cozze si sono scoperte contaminate. In più, Emilio Riva, 84 anni, presidente dell’Ilva Spa fino al 19 Maggio 2010, Nicola Riva, 52 anni, presidente dell’Ilva Spa dal 20 Maggio 2010, Luigi Capogrosso, 55 anni, direttore dello stabilimento Ilva, Ivan Di Maggio, 41 anni, dirigente capo area del reparto cokerie, Angelo Cavallo, 42 anni, capo area del reparto Agglomerato sono stati indagati per i reati di: disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose ed inquinamento atmosferico. Detto questo, fate vobis.