Lasciando la Baia del Re è il terzo e più recente documentario dell’emergente regista Italiana Claudia Cipriani; già autrice nel nuovo millennio dei documentari: Ottoni a scoppio (2003) e La guerra delle Onde (2009). Partiamo fin da subito con la premessa che questo documentario rappresenta, per la sua duplice natura e per il modus operandi della sua realizzazione, un difficile materiale da affrontare per la critica, in quanto esso si presenta separato in due distinti blocchi narrativi, debolmente legati fra di loro tramite qualche flashforward. Il primo blocco del documentario è sicuramente quello più dinamico e interrogativo; qui la regista Claudia Cipriani si muove con la sua macchina da presa nel doposcuola del’associazione di quartiere “Baia del re”, mostrandoci dalla sua prospettiva la vita, i pensieri e i problemi degli adolescenti che frequentano il doposcuola. E’ interessante notare il fatto che in questo caso la regista non rappresenta un fattore esterno al luogo ripreso, ma ne è al contrario facente parte, poiché lei stessa è insegnante nella struttura. Il regista non si trova quindi in quei luoghi con la sola mansione di operatore, ma interagisce con l’ambiente in modo più partecipe e tutt’altro che distaccato. Tramite le riprese ci accorgiamo fin da subito delle cattive condizioni nelle quali si trova il quartiere, e dei gravi problemi personali e sociali che i ragazzi del doposcuola portano sulle loro spalle.
Di forte impatto la metafora che la regista sceglie di utilizzare per rappresentare questo emarginato quartiere; la Cipriani paragona infatti la fallimentare spedizione italiana per la conquista del Polo Nord, partita dalla Baia del Re (avamposto scandinavo) negli anni Trenta del secolo, all’omonimo quartiere Milanese. In questo modo il quartiere si trasfigura nell’immaginario come un luogo emarginato e fuori dal mondo, nel quale tutto ciò che parte con buoni propositi non può che fallire inesorabilmente condividendo le sorti della storica spedizione. Questa interpretazione viene suggerita anche dalle parole di Valentina, un’adolescente frequentante il doposcuola, che definisce La Baia del Re come il quartiere delle intenzioni fallite, un quartiere dal quale tutti vogliono fuggire, perché nulla di buono può nascere in quel luogo dimenticato, che porta su di se come un’infezione, una malattia, che segna fin dalla nascita tutti i suoi abitanti.
La realtà che viene mostrata nelle immagini del doposcuola è quindi cruda, spontanea e reale, e i ragazzi ripresi dalla videocamera si esprimono con naturalezza e senza filtri, prendendo quelle riprese quasi fossero un gioco. Tuttavia, nel proseguire della visione dell’opera, si fatica a trovare un filo conduttore che possa far presagire dove stia vertendo il film, e infatti, su suggerimento della Cipriani stessa, scopriamo che il documentario nasce, e avanza, come opera work in progress. In questo modo però finisce per rimanere intatta solamente l’idea iniziale che ha spinto la regista a girare il film, ovvero mostrare, a mo’ di diario, i tanti volti e le tante storie che si incrociavano in quei luoghi. A lungo andare il documentario comincia ad appiattirsi e a perdere di senso, assumendo sempre più le sembianze di una serie di vane sequenze personali e diaristiche fini a sé stesse. Ed è proprio in questo momento di debolezza che vediamo subentrare d’improvviso il secondo blocco narrativo; che rompe nettamente col precedente orientando il documentario verso nuovi orizzonti.
Per comprendere questa seconda parte del documentario va sottolineato il fatto che, a causa di una cruda fatalità personale (che non riveliamo a pro della visione), la regista abbandona letteralmente il documentario addirittura per alcuni anni. Quando riprende in mano la videocamera ci ritroviamo quindi catapultati e disorientati in un ambiente e in un contesto totalmente diverso: siamo nella Baia del Re scandinava, la baia da cui partì la fallimentare spedizione italiana sopracitata; l’associazione è sparita, il quartiere scomparso, e dei ragazzi della Baia rimane un solo superstite: Valentina. In questo seconda parte il documentario finisce inesorabilmente per prendere una piega ambigua, in cui il confine tra documentario e videodiario personale è tutt’altro che definito; la regista infatti converte la videocamera, e inesorabilmente il documentario stesso, in un tramite col quale è possibile sfogarsi e liberare il proprio dolore.
Seguono quindi lettere, parole, e racconti intimi e personali che culminano nella discutibile sequenza in cui la Cipriani stessa diventa il soggetto ripreso. In questa sequenza la regista mette alla mercé del pubblico uno dei suoi segreti più nascosti e privati scoppiando in lacrime e mostrandoci in diretta il suo dolore, mettendosi completamente a nudo senza freno (in una scena che potrebbe essere avvertita al limite della pornografia). Questa sequenza, che in teoria non doveva figurare nel documentario, ci appare francamente come una forzatura, che cerca l’impatto e il coinvolgimento emotivo con lo scopo di puntare su un finale simbolico sensazionalistico. Tuttavia forse è proprio nei simboli e nel non detto che si cela il senso del documentario. Con uno sforzo interpretativo potremmo leggere Lasciando la Baia del Re come un tentativo meta cinematografico di riflessione sul mezzo stesso del documentario, che mostra il bisogno interiore che spinge un regista a riprendere un’idea ormai accantonata per farne un film. Tuttavia, se così fosse, un tema di tale complessità e levatura avrebbe meritato un’ampia e coscienziosa ricerca sia formale che contenutistica, della quale ne Lasciando la Baia del Re, ci dispiace dirlo, non troviamo traccia.