“Tutto si trasforma, nulla perisce. Lo spirito vaga e da lí viene qui, da qui là e s’infonde in qualsiasi corpo e passa dai corpi delle bestie a quelli umani e da noi alle bestie e mai perisce: come la cera malleabile può essere modellata con varie figure [...] così, secondo la mia dottrina, l’anima è sempre la stessa, ma trasmigra in corpi diversi”
Pitagora in Metamorfosi di Ovidio XV, 165.
Le quattro volte dell’anima che trasmigra attraverso i quattro grandi regni: l’umano, l’animale, il vegetale ed il minerale. Un anziano pastore, il suo cane e le sue capre, la sua morte e la nascita di una capretta. La capretta si perde poi sotto un grande albero, le stagioni si susseguono, l’albero viene tagliato ed usato per la Festa della Pita su al paese di Alessandria del Carretto. La festa finisce, l’albero viene tagliato in piccoli blocchi e caricato su un muletto dai carbonai che lo trasformano in carbone per le stufe del paese dell’anziano pastore. Dei passaggi ben definiti, cerchiati dal buio che li chiude e che li separa. Il pastore viene sepolto dentro un loculo del cimitero del proprio paese, la macchina da presa è dentro ed il nero che ne segue sembra occludere ogni possibilità di sviluppo drammatico, ma non ferma l’anima che prosegue il suo cammino. L’immagine si apre e vediamo il parto di una capretta. Come ad enunciare che la fine non è mai la Fine ma, e se tutto si trasforma, spesso essa coincide con un nuovo inizio.
Le quattro volte, opera seconda del regista milanese Michelangelo Frammartino ed ulteriore ritorno alle sue radici, nella Calabria Jonica che ha dato i natali alla sua genealogia. Sorretto da un’equazione pitagorica di nascita-morte-trasformazione e di nuovo nascita, il film, presentato alla Quinzaine des réalisateurs dell’edizione del 2010 del Festival di Cannes, nonchè vincitore del premio Europa Cinemas Label come miglior film europeo della sezione, ci presenta un’evoluzione animista sorretta da immagini paesaggistiche di grande respiro naturale, contestualizzando in esse i passaggi tra l’umano e l’animale, il vegetale ed il minerale. Se nel precedente lavoro, Il dono, il regista sviluppava la storia per poi chiuderla all’interno del cerchio naturale della decadenza e morte fisica dell’uomo, qui, trasporta la sua visione del mondo naturale circostante, dal singolo all’identità totalitaria che tutto comprende, attraverso quattro ciclicità distinte/indistinte dell’anima racchiuse in una struttura di per sè gia circolare, che si apre quindi con i carbonai che preparano il minerale e si chiude con quest’ultimi che vendono il carbone al paese dell’anziano pastore; che è anche il punto di partenza ed allo stesso tempo margine d’arrivo del continuo ritorno circolare del mostrato. Il paesaggio rimane lo stesso del precedente lavoro, è sempre la Calabria, le sue terre ed i suoi piccoli paesi che svolgono il ruolo primario di soggetto e sfondo. I suoni ed i dialoghi sono quasi inesistenti, se ne percepiscono solo lontani sprazzi di discussioni in dialetto, la voce dell’uomo è talmente tanto inclusa nel luogo circostante da diventare lontano vociare, sottofondo naturale per il rumore della natura. Come se la tosse inferma dell’anziano pastore diventasse, nella metempsicosi, il fragile belato della piccola capretta, oppure come se quest’ultimo diventasse il respiro del vento vicino all’albero, per poi mischiarsi alle grida felici del paese in festa ed arrivare poi a bruciare nei singhiozzi infuocati della combustione del carbone. La chiave rumoristica di presa diretta facilita il continuum dell’anima nelle sue successive identità trasmigratorie, mantenendo sempre lo stesso laconico verso.
I punti macchina minimalisti, costruiti per sottrazione del movimento a favore di una stabilità marmorea delle proporzioni (in una scena il vecchio pastore, ripreso in una sacrestia caravaggesca, posa circondato da statue di santi impolverate, connettendo l’emblematicità umana a quella iconografica e sacra) orientano lo sguardo verso una sensazione di oculata messa in scena che non occlude i personaggi che la compongono, lasciandoceli osservare in tutta la loro nuda fisicità, sia che siano circondati da una chiesa sia che siano parte costitutiva del paesaggio naturale calabro.
Il regista, nella sua opera seconda, torna a parlare di tensione verso la morte materica della forma, ricordandoci che è la sostanza che muove le “viti del mondo” attraverso l’anima ed il suo riciclo, mentre il mondo, che noi conosciamo come forma, procede incessantemente a rigenerarsi. Un film che cerca di far lavorare lo sguardo affettivo dello spettatore per dare vita ai propri nessi logici e narrativi che procedono rigorosamente solo attraverso immagini e suoni superando i dogmi della narrazione classica: “Considero il film un corpo morto che ha bisogno dello sguardo attivo dello spettatore per prendere vita. Riuscire a connettere il soggetto guardante, l’umano, e l’oggetto, le cose, è parte di una vitale tensione affettiva, che con un pò di retorica potrei dire che ha a che fare con la felicità“. Una richiesta di connessione attraverso non solo l’anima stessa che percorre il film, ma anche attraverso l’anima dello spettatore che viene chiamata in causa a dar vita al “corpo morto” filmico, attraverso una simmetria tra soggetto ed oggetto, sostanza e forma, finalizzate a produrre una “tensione affettiva” di vita spettatoriale simbiotica, simile a quel “modo di vivere” racchiuso nella massima bressoniana dell’unione fotografica di tre elementi primari e necessari, quell’algoritmo umano che pone “sulla stessa linea di mira, la mente, gli occhi e il cuore“.