Leatherface
Le origini del male secondo Maury e Bustillo, un prequel del capolavoro di Tobe Hooper che colpisce per vigore e onestà intellettuale.
Texas. Anni ‘60. Quattro adolescenti psicotici, appena evasi da un istituto per disturbi mentali, fuggono verso il Messico in cerca di salvezza, lasciandosi alle spalle una scia di cadaveri. In mezzo a loro si nasconde un ignaro serial-killer, destinato a diventare leggenda. L’unica testimone dei tragici eventi è una giovane infermiera presa in ostaggio, vittima inerme di una spirale di violenza che li porterà alla distruzione. Lungo la strada, i fuggiaschi si scontreranno con un cinico ranger, assetato di vendetta, pronto a inseguirli fino ai confini del mondo civilizzato, nel cuore nero della provincia americana; qui un’incestuosa famiglia di reietti aspetta il ritorno del “figliol prodigo” per tramandare le sue efferate gesta.
La storia, vista da quest’angolazione, potrebbe sembrare la sinossi di un libro pulp di Lansdale, o un delirante fumetto di Garth Ennis; invece è la premessa da cui partono i francesi Alexandre Bustillo e Julien Mauri ( del cult À l’intérieur) per innestare nuova linfa vitale nella contorta saga di Non aprite quella porta, iniziata nel lontano 1974.
Questo Leatherface non è il primo tentativo di rianimare il franchise concepito da Tobe Hooper; lo stesso regista si cimentò nell’impresa, dirigendone un surreale seguito dai toni grotteschi nel 1986. Da allora, negli ultimi trent’anni, sono stati portati sul grande schermo altri cinque capitoli di dubbio gusto, tra sequel, remake e reboot. Tutti i film, grandi produzioni patinate, nutrono la speranza di rinverdire i fasti delle atmosfere mefitiche dell’originale, esasperandone le componenti splatter, con il solo risultato di annoiare lo spettatore e annacquare, ogni volta, lo spirito anarchico degli albori. A differenza dei loro precedenti, Bustillo e Mauri non scomodano il titolo ingombrante della saga, per concentrarsi piuttosto sugli antefatti che precedono la storia che tutti noi già conosciamo. Parliamo di un vero e proprio prologo del seminale texas massacre, un prequel progettato per raccontare la genesi del suo protagonista, tra i capisaldi nel gotha degli horror di tutti i tempi.
Un compito arduo per i due registi europei, al loro esordio sul mercato statunitense, con un film indipendente, girato in soli ventisei giorni in Bulgaria con un budget esiguo, alle prese con l’icona del degrado del sogno americano. Anzi, una vera sfida, se pensiamo che il film ha visto la luce all’alba della scomparsa dello stesso Hooper, assumendo involontariamente lo status di tributo postumo alla sua “creatura” più fortunata. Ma chi è realmente Leatherface? Esiste davvero un uomo dietro il puzzle cucito nella carne del freak che brandisce la motosega? Sappiamo solo il suo nome: Jedidiah “Jed” Sawyer. Il dubbio sulla sua vera identità è il motore di tutta la prima parte del film, in cui il pubblico, dopo aver intravisto brevemente il protagonista da bambino sottratto alla sua famiglia, lo smarrisce prima in mezzo ad una moltitudine di volti senza nome, nei meandri di un ospedale psichiatrico; poi tra quelli di un branco di spostati in fuga dalla polizia. Chi sia l’assassino dalla “faccia di cuio” è dato a noi scoprirlo nel corso della narrazione, come in una sadica partita a Cluedo, in cui tutti i soggetti in gioco sono sospettati.
Per gran parte del tempo Leatherface non compare mai in scena direttamente, eppure sappiamo che c’è, la sua presenza aleggia in ogni singola azione dei suoi compagni di viaggio. Ognuno di loro riflette una scheggia impazzita della sua personalità: la schizofrenia omicida di Ike (James Bloor), la perversione di Clarice (Jessica Madsen), l’ottusità di Bud (Sam Coleman), l’introversione di Jackson (Sam Strike), l’innocenza di Lizzy (Vanessa Grasse). Sono tutti brandelli della maschera che andrà ad indossare negli episodi successivi. Soltanto alla fine, ricomponendo i pezzi, individueremo finalmente Jed, durante il suo battesimo di sangue, una figura tragica sconvolta dagli eventi che lo hanno travolto sin dalla nascita, sfigurando per sempre la sua psiche.
Gli unici che conoscono il segreto del ragazzo sono i tre poli attorno ai quali ruota la vicenda: la madre Verna, un’eccellente Lily Taylor nel ruolo della caparbia e possessiva matrona della “tribù” dei Sawyer; l’inflessibile direttore del manicomio (Chris Adamson) in cui il giovane è rinchiuso; lo sceriffo di ferro, Hal Hartman, interpretato da un invecchiato Stephen Dorff a suo agio nelle vesti di uno spietato tutore della legge. Insieme, i tre personaggi, introdotti per la prima volta all’interno della saga, rappresentano quelle strutture alienanti della società (famiglia, manicomio, stato) cui non è possibile sottrarsi se non con la pazzia o la rivolta.
Il film corre su due binari paralleli. Il primo è quello tipico del road-movie adrenalico anni ‘70, un omaggio ai classici del genere imperniato sulla dimensione corale: inseguimenti in auto, sparatorie nei fast-food e amori disperati; il secondo si concentra sull’orrore del viaggio di (de)formazione del protagonista, in cui la macchina da presa rallenta nello stretto imbuto di una mente in sfacelo, trasmettendo la progressiva perdita di controllo su ciò che accade intorno. Entrambi i binari riconducono a “casa”, attraverso un paesaggio immaginato, in cui i colori saturi della fotografia restituiscono il clima torrido e malsano di un Texas dove tutto è sporco, corrotto e marcio fino all’ultima inquadratura. Lo script di Seth M. Sherwood scava come un bisturi nelle viscere del malessere del protagonista, lavorando alacremente per dimostrare come il più innocuo, insignificante e inoffensivo degli esseri umani possa sconfinare in un abisso come quello di Leatherface, popolato da cannibali, dove l’oblio è l’unica forma di sopravvivenza mentre si va alla deriva, aggrappati alla violenza per non affogare nel nulla.
L’aspetto che colpisce di più del prequel di Bustillo e Mauri è l’onestà intellettuale con cui i due registi trattano il materiale di partenza, riportandone a galla, timidamente, alcuni dei sottotesti cardine (la famiglia disfunzionale, le istituzioni coercitive, la dicotomia bene/male), senza dimenticare gli elementi puramente slasher che l’hanno caratterizzato. Tuttavia resta il rammarico, acuito dall’ennesima dipartita di uno degli ultimi masters of horror, che manchi comunque qualcosa a questo ulteriore rilancio della saga. La sensazione è che con il suo autore si sia spenta anche l’urgenza comunicativa del racconto, quel coraggio di denunciare la realtà che muoveva gli autori della vecchia generazione (Romero, Carpenter, Craven); quando la motosega, oltre a squarciare il velo rassicurante della finzione, sbatteva i mostri in prima pagina.