Una vita di stenti e privazioni lacera l’animo e lascia cicatrici profonde anestetizzate da prodotti alcolici rigorosamente di sottomarca. I disperati non posso permettersi una catarsi in grande stile, neanche nel caso di due yankee maledetti. Anzi, forse è proprio a causa del loro essere così dannatamente invischiati nel tessuto americano che la rincorsa a quel way of life tanto decantato li fa deragliare, confermandone un costante sentimento di outsider. I fratelli Flannigan si trascinano per le strade di Reno, preceduti da una fama non troppo nobile. Sradicati da affetti e doveri, saranno costretti ad intraprendere un lungo viaggio ai confini della disperazione. L’antico ricordo di un amore incrocerà la loro strada, quel poco che basta per capire che non sono adatti alla vittoria. Perché The Motel Life è una storia di perdita.
I fratelli Alan e Gabe Polsky, produttori de Il cattivo tenente herzoghiano, debuttano alla regia con un lungometraggio tutto stelle e strisce, alla ricerca di topoi epifanici che tanta parte hanno avuto nella cultura undeground. Ricalcando le sbronze e i deliri di Faulkner, Steinbeck, Kerouac e Bukowski, in bilico tra spinta autodistruttiva e desiderio di redenzione, si arriva in concorso al Festival di Roma con un’altra storia di miserabili banditi dal sogno americano. L’asfalto su cui i fratelli Flannigan lo rincorrono per fuggire da un crimine involontario ne capovolge i contorni trasformandolo in un incubo. Inizia così la discesa agli inferi.
Interpretati da due assi degli schermi, i due fuck-ups non possono andare troppo lontani e inciampano su un passato di amarezze e sofferenze, dove l’unico quieto vivere è possibile solo nella condivisione di traumi con altri loser come loro. Di contro ad una Dakota Fanning algida e bidimensionale si erge tutta la figura di Kris Kristofferson, a instillare speranza da profondi occhi carismatici. Se Emil Hirsh perde quell’intensità che lo caratterizza altrove, restando comunque credibile nei panni di un derelitto sospeso tra due legami mozzati, Stephen Dorff concentra tutta l’emozionalità in espressioni deliranti. The Motel Life trasuda un malessere esistenziale che affonda nelle viscere e non garantisce riscatto.
Ispirata al romanzo di Willy Vlautin, questa pellicola si avvale di una regia asciutta che traduce in ogni inquadratura lo scacco matto di due vite ai limiti. Il Nevada sporco, innevato e stantio si intona a quella desolazione indie intaccata sulle pareti dei motel, non-luoghi per eccellenza, interni/esterni che accrescono un’ansia di incertezze e precarietà. Alcolismo e ossessioni si riversano su possibili tentativi di evasione, racchiusi in racconti di storie moderne che si animano infrangendo la continuità narrativa, unica nota di colore in questo contesto di tetra angoscia. Disegni e storie sono tutto quello che resta per un ultimo volo fantastico sopra lo squallore dilagante. Una delle pellicole più applaudite al Festival romano, The Motel Life lascia intravedere qualche imperfezione, condensata in uno stile crudo che non riesce a trasferire il senso di quelle ferite, di quelle amputazioni e di quel sangue che macchiano lo schermo. Nonostante il sentore poetico dietro gli schizzi di Mike Smith, sembra trattarsi di un pindarismo fine a se stesso, incollato di tanto in tanto tra stacchi di montaggio per alleggerire un rigido schematismo che tronca un completo trasporto emotivo.