Left by the Ship

Non voglio nulla da te,

tranne che tu sappia che io esisto

Quanto segue è l’ennesima prova di come la Storia sia piena di pieghe sconosciute e inesplorate. Di come questa possa contare al suo interno, tanto ombrato quanto foriero di contenuti, violenze lancinanti, perpetrate da tempi remoti, e di come queste possano vivere spudoratamente sotto gli occhi di tutti ma trascurate dai più. Quanto segue è anche la riprova di come le ferite delle guerre non cessino mai al terminare degli scontri, ma proseguano per decenni, trascinando con loro moltitudini di genti ancora oppresse da abusi e brutalità, di carattere umano, razziale e culturale. Pagine mai scritte della storia di questa Terra. Questa è una storia che non sentirete mai, probabilmente. A meno che non riusciate a visionare Left by the Ship, della coppia di registi Emma Rossi-Landi e Alberto Vendemmiati.

Siamo a Subic Bay, nelle Filippine, in quella che fu la più grande base navale americana al di fuori degli U.S.A. e che oggi è il più importante porto commerciale dello Stato asiatico di quasi totale monopolio statunitense. Qui un tempo, ma oggi ancora, i marinai U.S.A. trascorrevano lunghi periodi nel porto filippino, potendo contare su largo appoggio e permissività dello Stato fra la Malesia e Taiwan, che veniva da decenni in cui era stato prima colonia, poi protettorato e infine amico fidato del Governo yankee. I soldati americani avevano trasformato la tranquilla Olongapo City in un bordello a cielo aperto, dove ogni marinaio – nel migliore dei cliché marinari – aveva la sua donna del luogo, per poco meno di cinque dollari a sera. Complice la tracotanza dei militari e l’ignoranza sessuale delle prostitute autoctone, ben presto i figli nati da queste relazioni divennero una moltitudine. Gli amerasiatici, vengono chiamati. Quella di Left by the Ship è la loro storia.

Charlene Elizabeth Rose o Margarita De La Rosa Worthy sono solo due dei numerosi casi di amerasiatici, meticci senza diritti in una patria di per sé già avara di riconoscimenti statali. Questo ceppo etnico, che oramai registra tre generazioni, è un caso singolare nelle Filippine: molto numeroso eppure dimenticato dalle istituzioni. Oggetto di razzismo per via del colore nero della pelle di molti di loro, ma soprattutto per i tratti somatici evidentemente non indigeni, gli amerasiatici conducono delle vite ai margini della società. Essi difatti provengono da realtà familiari ed economiche sempre disagiate, giacché le loro madri sono (o sono state) delle prostitute che hanno avuto i loro figli da clienti marinai, sfruttate dai loro padroni e con una scolarizzazione pari a zero. Nondimeno gli amerasiatici non hanno padri, o perché le madri non ne conoscono l’identità o perché gli uomini si sono guardati bene dal riconoscere proprio un figlio nato da una notte di sesso a pagamento. Robert Ianne Gonzaga, invece, è un amerasiatico che ha studiato: oggi fa il giornalista e cerca quotidianamente di mettere in contatto gli amerasiatici che si rivolgono a lui coi rispettivi padri americani. Il lavoro è complicato, fra cognomi indecifrabili, carteggi militari logorati dal tempo, rinunce e collegamenti affettivi difficili da rinsaldare dopo tante decadi di silenzio. Ma è un dovere morale tentare di dare un padre a chi non ne ha avuto uno, con la speranza che il ritrovamento di questo aiuti i suoi discendenti sia a livello economico che umano.

Il documentario di Emma Rossi-Landi e Alberto Vendemmiati ripercorre la storia di questi meticci, con un lavoro mirabile che si è protratto per più di quattro anni, arrivando a sintetizzare degli ampi squarci di vita dei protagonisti del documentario. Il tema è fra i più interessanti e insondati, nonché paradigmatico delle ferite ancora aperte del dispotismo occidentale contro l’impotenza dei paesi sottosviluppati, e solo per questo vale la pena di essere visionato. Tuttavia l’opera di Rossi-Landi e Vendemmiati non possiede ritmo, sufficiente sapienza nella narrazione, invettiva o originalità strutturale. È, per giunta, troppo poco investigativo, e nonostante dica a chiare lettere che la legge 97-359 preveda che i figli nati da militari americani siano automaticamente cittadini U.S.A., non ci spiega perché ciò non avvenga per gli amerasiatici filippini. Premiato nella “Selezione Cinema.Doc Firenze” all’ultimo Festival dei Popoli, e presentato all’interno della manifestazione romana di CinemaDoc (di cui abbiamo già trattato Il sangue verde, This Is My Land… Hebron, El Sicario – Room 164 e Ma che Storia…) Left by the ship è un esempio claudicante di cinema impegnato, che se forse guardasse a problemi che meglio conosce conseguirebbe ben più apprezzabili risultati.

Autore: Emanuele Protano
Pubblicato il 16/08/2014

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