Lepanto – Ultimo cangaceiro
L’impatto sociale e demagogico dei mega eventi indagato attraverso la lente contraddittoria e complessa dell'attivismo.
L’impatto sociale e demagogico dei mega eventi: questo il fil rouge (e il titolo della tesi di dottorato di Enrico Masi, giovane ricercatore e videomaker bolognese) che lega Lepanto – Ultimo cangaceiro al lavoro che nel 2012 partecipava al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti. In quell’occasione, The Golden Temple - Olympic Regeneration of East London analizzava le conseguenze del progetto di riqualificazione di un quartiere a lungo trascurato da investimenti e politica in vista delle Olimpiadi di Londra. Come poteva il più grande centro commerciale d’Europa (il “tempio d’oro” del titolo), creato ad hoc nei dintorni di uno stadio nuovissimo e destinato a durare – fino a quando? – oltre la fine delle competizioni, risollevare la vita e l’economia di una popolazione dimenticata e ben lontana dall’incarnare la tipica clientela di quei negozi? Tra gli uomini e le donne coinvolte per affrontare la questione, beneficiarie e vittime di questa “rigenerazione”, Masi conobbe Mike Wells, un fotoreporter che subì l’esproprio della sua abitazione per far spazio ai lavori.
Sono queste le premesse del lavoro in concorso a Visioni Fuori Raccordo – Rome Documentary Fest, al cinema Apollo 11 e al Teatro Palladium dal 15 al 19 novembre. Dopo quell’esperienza, Wells si è impegnato nella lotta contro l’organizzazione di grandi eventi, colpevoli di fare a brandelli il tessuto sociale e abitativo delle piccole comunità limitrofe ai grandi cantieri.
Lepanto – Ultimo cangaceiro segue Weels lungo due binari incrociati: da una parte la partecipazione dell’uomo ai movimenti di resistenza brasiliani durante i lavori per Mondiali di Calcio e le Olimpiadi di Rio de Janeiro, dall’altra i problemi con la compagna Marie, in un primo momento “abbandonata” a Londra e poi ritrovata quando la donna decide di raggiungerlo.
Masi si affida al carisma e alla voce narrante di Weels per conoscere gli abitanti delle zone a rischio, minacciati dalle pressioni delle forze dell’ordine. Nel racconto dei testimoni e nella riflessione sul concetto di casa, ben argomentata da un punto di vista antropologico ed esistenziale, risiede la parte migliore dell’opera. Sicurezza, comodità e protezione, non soltanto come prerogative delle dimore individuali ma intese come caratteristiche fondanti di spazi e servizi comuni. Queste le condizioni preesistenti – diritti inviolabili secondo l’autore in ogni parte del mondo – minacciate da una nuova edilizia definita “difensiva”, responsabile cioè di sottrarre alle aree comuni giardini e piscine per rinchiuderli in complessi residenziali ad uso e consumo esclusivo di famiglie facoltose, quindi “al riparo” da un’umanità abituata alla solidarietà dei rapporti di vicinato. Sono in molti ad esprimere il proprio dissenso, da una madre di famiglia orgogliosa di quei luoghi, seppur degradati, a professori universitari (alcuni appartenenti alle minoranze etniche dell’amazzonia) che citano la Gemeinschaft e la Gesellschaft teorizzate da Tönnies.
Il versante relazionale, invece, trova la sua ragion d’essere nell’ideale trasformazione del protagonista nel Cangaceiro, eroe leggendario della cultura popolare in lotta contro le ingiustizie, la cui investitura lo allontana da Marie secondo un cliché rintracciabile in tutte le letterature. Attraverso la messa in scena di atmosfere metafisiche e rarefatte, più Weels assume le sembianze di paladino degli oppressi, più si affievolisce il rapporto con la donna. Qui il film trova la sua parte più farraginosa, non tanto per la dinamica a tratti goffa e donchisciottesca di questa trasfigurazione – chi può davvero fermare i mulini a vento del capitalismo del nuovo Brasile? – quanto perché le elucubrazioni personali del protagonista, soprattutto nella seconda parte, ne assecondano un protagonismo che rischia di distoglierci dall’istanza primaria del documentario. Un cambio di prospettiva sugellato dalla canzone folkloristica dei titoli di coda, esplicitamente riferita al conflitto di Weels, che lascia qualche perplessità circa lo scarto tra lo spazio concesso al soggetto della narrazione e quello dedicato al suo oggetto. Lepanto poteva essere l’occasione, ad esempio, di intervistare anche la controparte: il punto di vista dei responsabili o degli agenti degli sgomberi avrebbe permesso a un nemico principalmente ideologico e senza volto di rientrare in una fenomenologia, seppur aberrante, irriducibilmente umana.