Les garçons sauvages
Il sorprendente esordio di Bertrand Mandico è un film marziano e selvaggio, luminoso e primordiale, che ricerca l'assoluto in un'estasi senza tempo.
Mentre si assiste a Les garçons sauvages si ha l’impressione che le immagini galleggino in mari traslucidi e senza fine. Il nitore puro del bianco e nero – abbacinante quando i raggi del sole si riflettono sull’acqua - ci trasporta su un’imbarcazione che pare appena uscita da L’Atalante di Vigo. Qui abitano i fantasmi del cinema mentre fondali dipinti reinventano cieli stellati e notti di nebbia, tracce in cartapesta di un cinema primitivo.
Nella meravigliosa opera prima di Bertrand Mandico tutto il mondo si è fatto cinema e ogni ente subisce un processo di pura, mitologica trasformazione. Al centro del film, il viaggio di un battello fantasma che sembra trainato dal canto delle sirene: i passeggeri sono i ragazzacci borghesi del titolo, addomesticati dal Capitano, emanazione di pura potenza fisica, di vigore mascolino che nasconde però un seno dal capezzolo nero. È la forza di questa figura, la sua autorità, il suo padronato, ad attivare una dialettica del piacere di stampo masochistico. Il sogno della libertà si trasforma in un’esplosione di libidine incontrollata, in un ribaltamento di potere che è, prima di tutto, un’improvvisa mutazione di sesso. Una questione di genere.
Ma che cos’è Les garçons sauvages? Come definire questo strano oggetto filmico, trasparente eppure misterioso, familiare ma in fondo così ignoto? Qui tutto permane, tranne un perenne mutare delle forme, dei corpi, degli ambienti. Il film parte alla stregua di un incubo, tra stupri e violenze efferate in nome del totem Trevor, poi si trasforma in un mirabolante viaggio nautico, in un’avventura à la Verne che traccia due percorsi: da una parte il tragitto per l’Isola delle Sottane, Eden vivente, oasi del piacere e della perdita; dall’altra il percorso che reinventa, ripercorrendola, l’intera storia del cinema.
Qui la sensualità di Genet inebria il corpo di Tsukamoto, il candore del cinema muto torna a nuova vita mentre ogni primo piano ha la potenza di un paesaggio. Paesaggio dalla grana sternberghiana, storia di volo e di caduta, di estasi e di rovina. La pellicola, inoltre, si colora di sfumature marziane che riecheggiano la luce bluastra dei pinku eiga di Wakamatsu o addirittura il rosso bruciante dei drammi fassbinderiani.
Eppure…eppure siamo lontani anni luce da un cinema banalmente derivativo, perché questo film è l’UFO che appena sogniamo di afferrare immediatamente cambia carne e sesso. È un film vivente e, soprattutto, desiderante. È un film che insegue la rêverie selvaggia di un cinema fuori dal tempo, alchemico e stregato, mitologico e pruriginoso, brulicante di fantasie proibite e visioni abissali. Mandico è un creatore di mondi in grado di riporta in auge quell’idea batailliana di sacro che prorompe oltre la barriera del proibito, oltre gli obblighi della morale, oltre le mura della cultura. Prorompe nel liquido seminale, nell’urina e nella sete, nella seduzione del potere e nelle gole strozzate.
Mandico realizza un film in cui ogni inquadratura sogna quella seguente. C’è un’idea di trasparenza, di latenza delle immagini, come se ogni frame fosse avvolto da un velo di seta, da un organdi magico che, appena sollevato, svela un varco, un passaggio, una soglia verso l’inquadratura successiva. Non c’è immagine di Les garçons sauvages che non riveli la sua persistenza, come tutti i fantasmi del dormiveglia che danno vita alle fate. Se l’immagine è allora un corpo ectoplasmatico da poter trapassare, l’intero film è un paradiso remoto e primordiale, l’ipnosi di uno stregone che usa la pellicola come una sfera di cristallo.
Caduto in trance, lo spettatore viene guidato da input quali dissolvenze, sovrapposizioni, ingrandimenti progressivi delle figure, come se si trovasse in una lanterna magica. Qui il film può operare allora la sua scissione: maschile e femminile. Maschile è il peso della terra, il volume delle cose, l’ingombro del fallo, il getto dello sperma. Femminile è la musica su cui navigare, il candore della forma, la grazia del seno, la leggerezza del sogno. Ma c’è anche un oltre, una qualità anfibia, puramente transgender: il capitano e Tanguy, un solo seno, né maschi né femmine, ma creature protette, miracoli nel grembo stesso della natura.
In questo mare, ogni immagine si fa perturbante nel suo continuo invocare un richiamo lontano, insieme sacro e profano. Qui non c’è più argine tra preghiera e bestemmia, tra violenza e piacere, ma l’orgasmo può finalmente trasformarsi in una piccola morte. Perché cos’altro sono quei corpi incastonati in regnatele di sperma ormai solidificato se non vittime-carnefici delle loro stesse pulsioni? I ragazzi selvaggi inseguono l’estasi di un giorno senza fine, ebbri di vita e di passione, fusi l’uno nell’altro, in un’orgia dei sensi che è una continua, infinita, morte-rinascita.
Alla fine viene il sospetto che i ragazzi selvaggi non siano altro che bimbi sperduti, che l’Isola possa in fondo essere L’Isola che non c’è di Barrie. Anche qui il mondo esterno smette di esistere per dar vita a una grande, mirabolante avventura. In Peter Pan si conquistava il tempo, in Les garçons sauvages la preda è l’assoluto, la carne stravolta da un coito panico, divino. I ragazzacci perdono i loro attributi, scoprono un nuovo corpo, trovano il loro seno e l’origine stessa dell’universo.
«Il futuro è donna. Il futuro è strega.»
Sull’isola rimane Tanguy, eterno Peter Pan, entità anfibia, un po’ uomo e un po’ donna o, forse, né l’uno né l’altro. Tanguy scompare nell’oscurità, pronto a ricevere il piacere stesso della Terra, per poi forse trasformarsi e ritornare alle origini di tutte le storie. In quel momento preciso che precede il sonno, pronto a radunare nuovi ragazzi selvaggi, nuovi, docili bimbi sperduti.