À l’intérieur
Donne in attesa e sull’orlo di una crisi di nervi, in un’opera che tratteggia la maternità e la nascita come il cuore di tenebra della vita
Portare dentro di sé la vita, sentendola muovere e crescere al proprio interno come qualcosa di estraneo, ma, allo stesso tempo, come parte integrante non solo del proprio corpo, bensì anche, indissolubilmente, del proprio orizzonte esistenziale costituisce uno degli enigmi più grandi per l’essere umano, del quale solo la donna è in grado di sfiorare e, in parte, di cogliere la portata. Il cinema horror si pasce di assoluti: la vita, la morte, il dolore, la paura, la mutazione del corpo e/o della psiche, la perdita dell’identità, l’invasione del quotidiano da parte del perturbante; quindi, la maternità, origine e mistero dell’esistenza e, per ciò stesso, della sua conclusione, non può che costituirne un archetipo consolidato e, ormai, ampiamente sfruttato. À l’intérieur, opera prima – e come tale debitrice di molteplici e inevitabili omaggi e riferimenti a maestri del calibro di Argento, Antonioni, De Palma, Polanski, Carpenter, solo per citare i più evidenti e rimarchevoli, senza dimenticare il rischio del luogo comune che il tema principale del film reca con sé – dei due cineasti parigini Alexandre Bustillo (autore anche del soggetto e della sceneggiatura) e Julien Maury, aggira abilmente le trappole del déjà-vu, riportando la gravidanza alla sua origine animale, selvatica, primordiale e riconducendola al labile confine che separa la nascita dalla morte, attraverso il tributo di sangue che la vita, per essere, deve continuamente versare a se stessa.
Dopo una breve parte introduttiva, in cui viene presentata la protagonista Sarah (Alysson Paradis), una giovane fotoreporter vedova e al nono mese di gravidanza, il film entra a rapidi passi nel proprio cuore pulsante. La sera della vigilia di Natale, in una zona solitaria di un quartiere residenziale alle porte di Parigi, una misteriosa figura femminile nerovestita (Béatrice Dalle) bussa alla porta di Sarah, pregandola di farla entrare. Ha l’auto in panne – dice. Sarah è a casa, in attesa di partorire la mattina seguente, ed è sola, giacché il marito è morto, poco tempo prima, nell’incidente automobilistico che fa da incipit al film e di cui la giovane è in parte responsabile, visto che era lei alla guida. Già a partire da questa sequenza, che apre il duello fra le due antagoniste, che si protrarrà fino alla conclusione, è fin da subito chiaro quale sarà il ruolo della Signora in nero: figura incombente e presenza dominatrice, innanzitutto dello spazio acustico. La dimensione iniziale in cui si colloca tale personaggio è il fuoricampo, dal quale si propaga la sua voce off, suono acusmatico proveniente dall’esterno, mentre all’interno, à l’intérieur appunto, si vede un’inquieta Sarah, a disagio nonostante la porta chiusa – o forse proprio per questo, per l’impossibilità di scorgere l’interlocutrice – che percepisce l’inizio dell’intrusione nel proprio ambiente domestico. Vanamente ella scruta dallo spioncino e da una finestra per tentare di riconoscere i tratti della sconosciuta: il suo occhio percepisce solo il buio o alcune rade e malinconiche luci natalizie, che accentuano l’isolamento e la solitudine di cui è preda. Altrettanto inutilmente Sarah tenta di scattare alcune fotografie dell’estranea, che, intanto, ha palesato la propria silhouette dal vetro di una finestra, rompendolo poi con un pugno isterico: le sfocate immagini ottenute non faranno altro che accentuare l’indiscernibilità della Signora, moltiplicandone l’evanescenza e quindi l’incombere inquietante, e aumentare i timori di Sarah. La sconosciuta, inoltre, sembra in possesso di informazioni estremamente personali e intime sul passato di Sarah, elemento che ne eleva ulteriormente il rango di padrona del gioco, anche se, per il momento, sembra desistere dal confronto e si allontana.
Una pattuglia della polizia giunge intanto a casa di Sarah, dopo essere stata allertata da quest’ultima, ma le ricerche riguardanti la sconosciuta non portano ad alcun risultato. Sarah si congeda dalle forze dell’ordine, ottenendo la promessa del passaggio notturno di un’altra pattuglia per un controllo e poi torna ad essere sola. In realtà, tutti i personaggi che si avvicendano nel tentativo di soccorrere Sarah altro non sono che comprimari, carne da macello sulla strada che separa la protagonista dalla sua persecutrice, trascurabili ostacoli che intralciano, brevemente, il procedere del duello fra le due donne, che si dimostreranno, al contrario, dotate di una forza e di una resistenza quasi sovrumane. Il microcosmo tratteggiato dai due registi transalpini in À l’intérieur risulta decisamente matriarcale, giacché a tirare le fila dell’azione, a coordinare il senso dell’intreccio, a connotare l’anima e la psicologia del film sono due donne, due madri – anche se, come si vedrà in seguito, con attitudini, inclinazioni ed esiti diversi e, tuttavia, meno distanti di quanto si sarebbe portati a supporre a una prima impressione – laddove la controparte maschile risulta decisamente e violentemente esclusa.
La casa-placenta – nella riuscita, ancorché scoperta, metafora che accompagna tutto il film, assieme alla fragilità di entrambi gli involucri, facilmente violabili dalle minacce esterne, che possono distruggere la vita di chi è al loro interno – viene profanata, questa volta irreversibilmente, dall’estranea, una volta che Sarah è rimasta di nuovo sola. Dopo essersi introdotta nell’abitazione, la Signora giunge a controllare con facilità l’intero edificio e diviene, letteralmente, la nuova padrona di casa, portandovi tutta la propria furia e la propria carica ferina: l’interno diventa l’inferno. Con la colonizzazione dell’ambiente domestico da parte dell’estranea, viene a chiarirsi anche, finalmente, quale sia la motivazione profonda che ne fomenta le azioni: vuole il bambino che Sarah porta in grembo, anche se questo elemento non chiude ancora il cerchio del senso, tutt’altro.
La giovane, aggredita e pesantemente ferita dalla sconosciuta, trova rifugio nel bagno, mentre la Signora in nero rimane a far gli onori di casa. I primi a farne le spese sono l’editore di Sarah – suo amico, oltre che suo datore di lavoro – che scambia l’intrusa per la madre della ragazza, e poi la vera madre, giunta a sincerarsi delle condizioni della figlia. Entrambi troveranno una morte violentissima e repentina, solo che la madre di Sarah verrà uccisa, per errore, dalla figlia, che la confonde con la propria aguzzina. Una morte altrettanto rapida, parossistica, a tratti grottesca per furia e brutalità la subiranno, a loro volta, sia i poliziotti della volante notturna, passati a sincerarsi delle condizioni di Sarah, sia un giovane di origine nordafricana da loro arrestato. Essere padroni di un ambiente significa anche farne perdere le coordinate ai propri avversari, che finiscono, per così dire, con lo “spararsi addosso”, col non capire chi sia l’avversario e dove si annidi. È indicativo, a tal proposito, il fatto che anche i poliziotti, inizialmente, non riescano a identificare la Signora, scambiandola per Sarah. Lo spazio domestico sembra restringersi, chiudersi addosso a Sarah e ai suoi soccorritori inavveduti, mentre l’abbondare delle zone di buio – i predatori notturni non hanno bisogno di luce per sentire le proprie prede – accentua il senso di claustrofobia e l’estraneità degli ambienti per i personaggi come per gli spettatori, che finiscono con l’essere scaraventati in un vero e proprio mattatoio brumoso, dove a predominare, come in un quadro astratto, sono le figure incerte dei cadaveri che si moltiplicano e le pareti ricoperte dagli arabeschi del sangue rappreso. La casa-corpo, con le pareti che sembrano trasudare emoglobina, si rivela placenta infranta di corpi morti, mentre la Signora in nero persegue tenacemente la ricerca dell’ultima esistenza intatta rimasta, cioè il bambino di Sarah, uccidendo – mostro ipnotico e ipnotizzato dal sonno della ragione, abnorme paradosso partorito dalla notte – in nome della vita.
Anche la Signora in nero è però, a suo modo, una vittima. Nel finale, emerge il motivo originario che l’ha spinta a sfogare la furia che la possiede, ormai, senza requie: nell’incidente in cui perse la vita il marito di Sarah, trovò la morte anche il piccolo che la Signora – in quel momento, semplicemente, una donna in felice attesa del figlio – portava in grembo, giacché ella si trovava alla guida dell’altra vettura coinvolta nell’incidente. Il figlio di Sarah costituirà il risarcimento morale e materiale per la perdita del figlio naturale. Tale forzatura della trama – l’evento scatenante delle sanguinose vicende narrate, che vede due donne in avanzato stato di gravidanza, entrambe inaspettatamente al volante ed entrambe coinvolte nel medesimo incidente – trova però una motivazione di ordine simbolico, che ne riscatta le premesse, rivelando un aspetto decisivo dell’esistenza umana (oltre a innescare, comunque, un racconto filmico estremamente serrato e dalle potentissime suggestioni): la vita e la morte si coappartengono indissolubilmente e sia l’una che l’altra seguono imperscrutabili vie per rendere preziose o funeste le esistenze degli uomini. Non sempre sopravvivere è una fortuna, non sempre la vita è un dono inestimabile, non sempre l’innocenza è fonte di salvezza, ma incessantemente tutto ciò che l’essere umano ha di più caro è in costante pericolo.
Il vero valore aggiunto dell’opera si situa però nel confronto persistente fra le due antagoniste, che diviene una vera e propria caccia sadica, un corpo a corpo estenuante e continuo, in cui proprio i loro corpi e le loro menti di madri primordiali – purificate, a causa dell’estrema lotta, da qualsivoglia sovrastruttura o cascame di civiltà – sono assoluti protagonisti, in quanto portatori sia di vita che di morte, senza soluzione di continuità. L’ex madre in nero utilizza le proprie mani guantate, la propria selvatica astuzia, la forza ancestrale del proprio corpo ormai vuoto, perciò agile e adatto alla lotta, per combattere il corpo pieno di vita, quindi lento e pesante, di Sarah. Anche quest’ultima, tuttavia, è costretta a far ricorso a una violenza che, sia pure reattiva, si dimostra altrettanto estrema. In realtà, le due donne non sono altro che due immagini deformemente speculari, mai del tutto corrispondenti l’una all’altra né mai del tutto divergenti: entrambe madri aggredite dal fato, entrambe protettive nei confronti della vita che portano – o hanno portato nel caso della Signora – in grembo, entrambe, infine, feroci con chi minacci la sicurezza della propria prole. Anche Sarah arriva, infatti, a portare la morte, a infliggere dolore, dapprima trafiggendo brutalmente – madre assassina di madre – il collo della propria genitrice, sia pure per errore, e poi appiccando il fuoco al volto soddisfatto e rilassato della Signora, distratta dall’imminente vittoria, che, sia pure più faticosamente del previsto, giungerà ugualmente. La Signora, infatti, sia pure pesantemente sfigurata per l’aggressione di Sarah, una volta annichilite le ultime resistenze della ragazza, potrà finalmente coronare il sogno di stringere una creatura tutta sua fra le proprie braccia, dopo averla strappata, con brutalità e metodo, dal ventre squarciato della sua vittima ormai agonizzante. Non è dato sapere se il neonato sia vivo, ma appare chiaro che, in nome di una vita incerta, tutte le altre sono state spazzate. La Signora in nero, madre privata del proprio ruolo e, quindi, mancata portatrice di vita, in nome di questa ha portato la morte.