Martyrs
La vita come supplizio senza fine, l’incomunicabilità del dolore individuale, l’inaccessibilità della verità
La carne, lo sguardo, l’assolutezza degli argomenti trattati, la complessità dei personaggi e della costruzione del racconto, lo sviluppo di una riflessione di matrice politico-sociale, nella quale le differenze di classe si delineano, in modo decisivo, come differenze esistenziali: il cinema di Pascal Laugier traccia, attraverso questi temi, alcune delle coordinate fondamentali della propria poetica, che sembra trovare in Martyrs, dopo l’esordio con luci e ombre di Saint Ange (2004), una raggiunta maturazione, illuminata da squarci di lancinante e morbosa genialità.
Il film risulta diviso in due macro-segmenti narrativi – a ciascuno dei quali corrisponde una diversa protagonista – nettamente distinti a livello stilistico, tematico e anche per ciò che attiene al background consolidato dei generi e sottogeneri di riferimento, rispetto ai quali il primo presenta uno sviluppo coerente, parzialmente derivativo, ma comunque in grado di delinearsi come furioso prologo al secondo, che invece parte per la tangente, definendo un racconto autonomo quanto mai originale e nel quale la già estrema ferocia mostrata si moltiplica fino a levare allo spettatore ogni barlume di senso e di catarsi.
Lucie (Mylène Jampanoï da adulta, Jessie Pham da bambina), una ragazzina preadolescente, dopo essere stata catturata e seviziata da degli sconosciuti, riesce fortunosamente a fuggire e viene tratta in salvo dalla polizia. Ricoverata in un centro per bambini disadattati, emarginati o abbandonati, conosce Anna (Morjana Alaoui da adulta, Erika Scott da bambina), che diventa il suo unico punto di riferimento, l’unica amica in un mondo che si è scordato di lei, a parte l’incombere di una presenza mostruosa che la tormenta, in realtà proiezione di un senso di colpa indelebile, prodotto, nella sua mente allucinata, dal ricordo di un’altra bambina con cui aveva condiviso la prigionia e che, nel momento della propria fuga, non aveva avuto il coraggio di liberare, nel timore di essere scoperta dagli aguzzini.
Quindici anni dopo, Lucie, ormai adulta, rintraccia, finalmente, le malefiche figure che l’avevano seviziata e si appresta a compiere la vendetta. I due torturatori, marito e moglie di mezza età con due figli adolescenti, risultano, di primo acchito, persone assolutamente normali, perfettamente integrate nel tessuto sociale medio-borghese e la cui esistenza sembra delinearsi all’insegna di una routine quotidiana quanto mai ordinaria, armonica, quasi idilliaca. In questo caso, la dimensione politica del testo filmico (poi sviluppata fino alle estreme conseguenze nella seconda parte) emerge violentemente dal contrasto dissonante fra la delicata dimensione domestica – sapientemente descritta da Laugier anche con lo scopo di spiazzare e disorientare lo spettatore, di sgretolare ogni sua certezza relativa al proprio ruolo di costruttore di senso nel processo della visione – e l’oscuro passato dei due adulti. Un ulteriore e contiguo elemento dialettico è costituito dalla furia con cui Lucie letteralmente polverizza la pacifica esistenza della comunità famigliare, senza pietà. Infatti, il racconto è costruito in modo tale da non rivelare – almeno durante il massacro – quale sia stato l’effettivo ruolo dei due adulti nelle drammatiche vicende occorse a Lucie e da non chiarire se la ragazza abbia preso o meno un abbaglio nel riconoscere in quelle persone i suoi carcerieri di un tempo. Il frammentarsi delle certezze dello spettatore si amplifica con l’arrivo di Anna sul luogo della carneficina, dopo essere stata contattata da Lucie.
Con l’entrata in scena di Anna, si assiste al progressivo slittamento del ruolo di protagonista nello sviluppo del racconto, che transita da Lucie ad Anna stessa. Questo elemento contribuisce anche, in modo decisivo, allo sfasamento prospettico del punto di vista, che diviene appunto quello di Anna, quindi quello di una persona estranea ai fatti e dubbiosa circa l’operato dell’amica. Quando Lucie, incapace di sopportare il peso della propria esistenza e del proprio passato, si suicida, Anna diviene il fulcro di un racconto letteralmente nuovo, che risulta tale anche a partire dalla differente natura del personaggio, rispetto a quello di Lucie.
Dopo il suicidio di Lucie, Anna si aggira sperduta nella casa e scopre un passaggio che conduce a un sotterraneo, un sottosuolo metaforico e fattuale, ricco di enigmi e dolore. Vi scopre una stanza segreta, alle cui pareti campeggiano fotografie di moribondi e dalla quale si apre una botola verso una cripta: la camera delle torture, all’interno della quale Anna si imbatte in una figura femminile allo stremo, ricoperta di ferite e il cui capo è imprigionato da un infernale marchingegno inchiodato sul cranio parzialmente rasato. Anna tenta di alleviare il dolore della malcapitata, ma invano: la donna, folle per il dolore e le sevizie, le si rivolta contro violentemente. In poche sequenze, lo spettatore viene messo al corrente sia della vera natura delle persone sterminate da Lucie – perlomeno dei due adulti, visto che non emergono elementi capaci di chiarire l’eventuale ruolo dei due figli adolescenti della perfida coppia – sia delle capacità empatiche di Anna, in grado per anni di prendersi cura della sfortunata Lucie e ora pronta a soccorrere una sconosciuta sfigurata, privata della propria identità e ormai demente. Mentre l’istinto di sopravvivenza aveva portato Lucie a salvarsi, trasformandola perciò da vittima in involontaria carnefice dell’altra ragazza prigioniera, non avendo potuto liberarla per essere più rapida nella fuga, la pietà di Anna sarà, per quest’ultima, la rovina: non esistono, per Laugier, azioni totalmente giuste o sbagliate, buone o cattive, almeno per chi vive situazioni estreme, ma soltanto scelte ardue, i cui esiti sono sovente contraddittori, ambigui, irrisolti e ingiudicabili.
Sulla scena irrompono dei nuovi e ben più temibili avversari, rispetto all’apparentemente innocua coppia falcidiata da Lucie: sono degli individui in nero, braccio armato, lo si scoprirà nel finale, di una aberrante confraternita del dolore, composta da membri dell’alta società, alla cui sommità campeggia la venefica figura di “Mademoiselle” (Catherine Bégin). Dopo aver freddato la donna di cui Anna aveva tentato invano di prendersi cura, gli sgherri della confraternita prendono prigioniera la ragazza e la rinchiudono nel sotterraneo. L’orizzonte di senso del racconto filmico sta rivelando dei confini ampi, imprevedibili e alquanto raggelanti. Mademoiselle, parlando con Anna, chiarisce gli scopi della congregazione: studiare il comportamento umano in situazioni di sofferenza assoluta, per individuare il tenue confine che separa le semplici vittime dai martiri, cioè da coloro che sono in grado, attraverso il dolore, di trascendere la dimensione mondana e tramite l’estasi – letteralmente, l’uscita da sé – di arrivare a conoscere la dimensione ultraterrena per esserne testimoni. Anna non sarà altro che un’ennesima cavia.
È a questo punto del racconto che emerge tutta la sapienza registica di Laugier, sia nell’estremizzare il portato politico e polemico del suo lavoro, sia nel porre lo spettatore in una posizione quanto mai scomoda e pericolosa. I detentori del potere sono espressione sia della consolidata visione gerarchica della società, che prevede i rappresentanti delle classi subalterne come mere casualties numeriche nell’interesse della classe dominante, sia della concezione postmoderna, che delinea un immaginario scorporato dall’esperienza diretta, carnale, fisica, nel quale la ricerca della verità avviene in absentia, per interposta persona, tramite il racconto/resoconto della realtà e della verità e di qualunque piano di realtà e verità si sia alla ricerca. Contiguamente, il ruolo dello spettatore – anch’egli inevitabilmente assente – viene a trovarsi in bilico fra la dolorosa e indifesa identificazione secondaria con Anna e quella primaria legata al proprio sguardo, complice impotente delle atrocità che avvengono sullo schermo.
È proprio nello sguardo, in generale, che è possibile, peraltro, tentare di individuare uno dei vettori di senso dell’opera: uno dei tratti distintivi dei martiri è proprio situato nell’occhio, nell’intensità della sua espressione, che può arrivare a racchiudere il segreto della vita e della morte. Si tratta ora di capire quanto l’ambiguità e l’opacità di uno sguardo siano forieri di verità. I carcerieri di Anna non hanno dubbi: la ragazza appartiene proprio alla rarissima “specie” dei martiri, il suo sguardo dimostra il suo stato di estasi, l’avvenuto contatto con la dimensione ultraterrena. La beatitudine, per queste persone crudeli – a che serve indagare il sovrasensibile, se chi ne ricerca l’essenza è, letteralmente, senz’anima? – è un fatto, un dato oggettivo, un segno che rimanda, senza possibilità di contraddizione, a un referente definito e definitivo. La confraternita, però, non ha fatto i conti con un ostacolo tanto elementare quanto insormontabile: la dubbia capacità della parola, quindi della testimonianza, di essere portatrice di verità e, soprattutto, l’impossibilità di accedere alle verità ultime se non attraverso l’esperienza diretta, la dolorosa e incerta ricerca personale. L’immaginario scorporato deve pagare dazio alla propria assenza.
Mademoiselle cerca di carpire ad Anna l’estrema confessione di una mente sconnessa e allucinata, perciò le si avvicina, da sola, per interrogarla sulla consistenza delle sue visioni ed Anna, ormai prossima alla morte, le bisbiglia delle parole inudibili per lo spettatore. Poi l’anziana donna si rinchiuderà in una stanza, prima della cerimonia della rivelazione, e si suiciderà lanciando un monito beffardo: “Dubitate”. La parola fugge, la verità si cela, solo il dolore rimane.