Lo zio di Brooklyn
Il debutto cinematografico di Ciprì e Maresco amplifica e porta a compimento le premesse maturate in televisione tra coraggio, provocazione e rigore concettuale.
In principio fu Cinico Tv.
Anni Novanta, Raitre apriva alla sperimentazione (Enrico Ghezzi, Blob e Fuori Orario) e i produttori italiani scommettevano sui talenti emergenti pensando agli incassi, certo, ma anche per scuotere la scena culturale italiana e internazionale. Dal 1992 al 1996, di notte e nel preserale, andarono in onda i prodromi de Lo zio di Brooklyn: brevi clip tra finzione e documentario, un bianco e nero elegante e violento nei contrasti di luce, la macchina da presa per lo più fissa, i piani sequenza, la voce fuori campo che intervista “cinicamente” e con modi beffardi i personaggi. Questi, sullo sfondo di una Sicilia così brulla, disabitata, desolante e impervia da evocare scenari post-atomici, erano tutti poveri disperati, alcuni irrimediabilmente tragici nella loro grottesca demenzialità, altri fieramente volgari nei loro rutti, meteorismi e invettive nonsense. Un microcosmo che partiva dall’isola del malaffare e dall’arretratezza socio-economica per rispecchiare gli italiani tutti reduci dagli anni Ottanta, agli occhi degli autori profondamente ignoranti e incapaci di pensare, insomma senza speranza. E poi la precisa e coerente scelta estetica di scegliere le “facce giuste”, ovvero brutte sporche e cattive e adatte a riportare prima in tv e poi nel cinema le rughe, l’irregolarità, l’imperfezione e la trascuratezza dei migliori caratteristi possibili. E dunque eccola, Cinico Tv, uno spaccato irreale, nichilista e distopico di tutti i difetti possibili dell’Italia che si imbarbariva davanti alla tv, così accidiosamente trash da risultare esilarante, comica e liberatoria.
Produce De Laurentis e Luca Bigazzi firma il bianco e nero. Qualcuno si toglie un occhio, come per non vedere almeno la metà di cosa succederà; poi qualcun altro paga un vecchio col carretto per fare sesso col suo asino. Il rapporto è ripreso senza censure, un lento movimento all’indietro (si prendono le distanze, almeno all’inizio) e rieccola, la telecamera fissa; un uomo passa, osserva e tira dritto perché non c’è niente di strano, lo fanno tutti; la scena è ripresa dando spazio al proprietario dell’animale (primo piano, sorride) e al suo "cliente" preso da un’eccitazione rabbiosa (mezza figura), con un totale e un campo lungo. Una piccola lezione di attacco, oltre che di cinema. Prima, un breve montaggio di paesaggi solitari e prati incolti, dalle ampie strade deserte ai casermoni dell’abusivismo edilizio; infine un "cicerone" locale che cerca di introdurre il film ma finisce per arrendersi di fronte ai propri limiti intellettivi ed espressivi. Partono i titoli di testa.
Il primo lungometraggio di Daniele Ciprì e Franco Maresco è un opera anarchica e frammentata, costellata da gran parte degli attori non professionisti già visti sul piccolo schermo e capace di sorprendere lo spettatore non tanto per la storia (o le storie, di cui si mettono alla berlina i cliché), quanto invece per le intuizioni meta-cinematografiche che ricordano di continuo di trovarsi di fronte un pasticcio dissacrante e irriverente. L’immaginario legato alla Sicilia tutto famiglia, processioni, religione, rituali, mafia e virilità (il cast, lunghissimo, non comprende neanche una donna) è piegato all’eccesso e all’iperbole tragicomica: i due autori radicalizzano la propria idea di cinema - fare di necessità virtù coi pochi mezzi a disposizione per privilegiare una messa in scena in cui la desolazione della scenografia sia più presente possibile - ed esasperano la propria visione del mondo rivelando come fonti di ispirazione il neo-realismo pasoliniano e la leggerezza felliniana (si pensi al finale riconciliatorio).
Il pensiero comune che indica Maresco come l’ideologo e Ciprì come un grande tecnico è stato smentito dalle interviste, dalle rispettive carriere e infine dalla rottura: Lo zio di Brooklyn non fu solo un debutto, bensì il biglietto da visita di due teorici e intellettuali che restituì linfa vitale al dibattito cinematografico e culturale e segnò l’inizio di un rigore e un’indipendenza creativa (il rapporto con De Laurentis si interruppe subito dopo le polemiche di stampa e opinione pubblica, in primis siciliana) ancora inalterati.