L'ombra della paura
Un horror introspettivo e politico tra echi ancestrali e suggestioni contemporanee.
Che la guerra fosse un ottimo contenitore per le degenerazioni del nostro immaginario, così come un regime opprimente fosse il migliore sonno della ragione per generare mostri sempre nuovi e temibili, era già cosa nota.
Ma che il futuro di questa formula stesse decisamente al di fuori delle sicurezze di un cinema di genere occidentale e ben consolidato pare invece una recente novità.
Solo un anno fa un’opera come Baskin di Can Evrenol stravolgeva coscienze e percezioni in una Turchia da incubo, imponendo con prepotenza un immaginario e una forza espressiva decisamente fuori dai (nostri) canoni.
Non che L’ombra della paura (in originale Under the Shadow, da gennaio disponibile su Netflix), opera prima dell’iraniano Babak Anvari, abbia molto altro da spartire con il collega turco, eppure è forte in entrambi il senso di un cinema marginale e deflagrante pronto a prendersi il suo spazio nel panorama dell’horror mondiale, anche e soprattutto laddove inciampi nei meccanismi e negli orrori della Storia.
Una Storia che non poteva essere più ingombrante quella di Under the Shadow, la Storia dell’Iran di Khomeyni e della Rivoluzione, della guerra con l’Iraq e di una Teheran sotto la costante minaccia dei missili; una Storia che inevitabilmente fagocita le esistenze ed entra (anche letteralmente) nelle case, sovvertendo l’opprimente quotidianità di famiglie, donne, bambini.
Parte da un contesto repressivo e si immerge fino alle ossessioni e le frustrazioni di una madre il film di Anvari, circoscritto e insieme universale nel tracciare paure, paranoie e senso di inadeguatezza.
L’esterno invade l’interno in questo dramma claustrofobico dove è proprio il Sistema a ripercuotersi e determinare le frustrazioni e le mancanze di una donna (Shideh, impossibilitata a terminare gli studi in medicina a causa dei suoi trascorsi politici, e quindi costretta nel ruolo di casalinga e madre) e a colorare di ossessione e paranoia il rapporto con sua figlia.
Under the shadow diviene così un film di atmosfere, silenzi, e non visto, in costante equilibrio tra paranoia allucinatoria e un soprannaturale appena suggerito, appena intravisto tra le pieghe di un incubo o tra i boati di un allarme antiaereo. Fino al suo definitivo palesarsi, in un crescendo di tensione esasperante.
Facendo proprie le suggestioni e le dinamiche di certi recenti e striscianti horror psicologici e famigliari come l’australiano Babadook, giocando a ribaltare intelligentemente stereotipi e luoghi comuni, il film travalica le logiche di genere contaminandole, pur restandone fortemente (e saggiamente) ancorato.
Le ricorrenti figure della madre e della figlia si fondono così ad archetipi più profondi e ancestrali mentre il dramma di una nazione e di un momento storico si fa tragedia interiore e, insieme, spettro esotico di incubi universali.
Non potevano allora che essere dei jinn – sorta di misteriosi ed evanescenti demoni coranici – le personificazioni di questo Male, esplicitazione di un’oppressione culturale e arcaica e, insieme, l’incarnazione di inquietudini che non hanno confini.
Claustrofobico, opprimente, portatore di un terrore sempre presente e in agguato a ogni cambio di inquadratura, a ogni movimento di macchina, Under the Shadow porta con sé la forza e l’inquietudine del miglior prodotto di genere e la consistenza vibrante ed emotiva di un’opera (inevitabilmente) politica, dove la società è abbrutimento, la famiglia prigione, e il vero orrore è la quotidianità.