In a lonely place
Un horror lontano dal trambusto tipico del genere ma melodico e malinconico come uno spartito jazz
A guardare il trailer di In a lonely place lo si potrebbe scambiare per un torture porn dove un maniaco ha in ostaggio una ragazza. I primi pensieri che vengono in mente sono: con appena due attori e una location sarà certamente un bassissimo budget; motivo valido per non aspettarsi nulla di più di efferati supplizi e abbondante noia. Se il pregiudizio non rappresenta un ottuso ostracismo, può trasformarsi in un ottimo trampolino per una piacevole sorpresa. Innanzitutto accostare il lungo d’esordio di Davide Montecchi ai vari Hostel e Saw è idiozia pura, a meno che non lo si voglia considerare il più elegante torture porn mai realizzato. Non solo lo splatter è assente ma la violenza è principalmente psicologica. Là dove subentra quella fisica è comunque inquadrata a debita distanza. In a lonely place narra effettivamente della prigionia di una donna e del suo aguzzino, ma il confine tra vittima e carnefice è molto sfumato. Il film si apre in un albergo abbandonato, dove un uomo lamenta il proprio amore e prova, letteralmente, a tagliare la corda. L’unico abitante del vacuo edificio è Thomas (Luigi Busignani), un fotografo introverso in grado di ritrovare un barlume di felicità solamente quando riceve la telefonata di una vecchia conoscente, Teresa (Lucrezia Frenquellucci). La necessità di lei di realizzare un nuovo book diventa l’occasione per incontrare un amico con cui confidarsi. L’appuntamento prende una piega inaspettata quando Thomas lega Teresa a una sedia e comincia a tormentarla con una semplice domanda: chi sei?
Sulla trama non è possibile aggiungere altro perché è il finale a sbrogliare una matassa avvolta volutamente in maniera confusa e tormentata. Non solo il montaggio non segue un ordine cronologico, ma il tempo sembra sospeso. Nonostante di tanto in tanto venga inquadrato un orologio che indica ogni volta un orario differente, l’assenza della lancetta dei secondi ce lo fa percepire come bloccato. La luce solare, costantemente volta al crepuscolo, rafforza questa sensazione. L’assenza di una dimensione temporale mette a sua volta in dubbio l’esistenza di quelle spaziali. L’albergo, di norma groviglio di persone, è ora sinonimo di solitudine. Le sue stanze e i corridoi sono meandri di un cervello in cui echeggiano costanti dilemmi. Thomas è angosciato dall’idea di non ricordare, del non sapere più distinguere tra desiderio e accadimento. La sua fragilità si materializza nei vetri onnipresenti che acquistano un ulteriore valore quando sono specchi.
La loro capacità di riflettere esclude inevitabilmente la possibilità di penetrare e dà vita a un duplicato che è solo apparenza e ambiguità. Non a caso, in un lungo dialogo in campo e controcampo, il volto di Thomas è incorniciato tra due specchi, uno integro e l’altro rotto, nei quali si riflette Teresa. La doppia percezione di lei è il movente di lui, ciò che lo spinge a smettere di ritrarla con una macchina fotografica e a cercare nuove strade in grado di scovarne la vera essenza.
In a lonely place è un horror metafisico sebbene, a conti fatti, non abbia nulla di soprannaturale. Non è un prodotto di puro intrattenimento, quindi è fortemente sconsigliabile proporlo durante una serata tra amici smaniosi di risate, popcorn e birra. Il film di Montecchi è L’anno scorso a Marienbad. Non adatto a un pubblico impaziente, bisogna assaporarlo con calma, semmai accompagnandolo con una coppa di spumante. Sebbene le risorse finanziare dello stesso regista abbiano messo un limite al numero di interpreti e ambienti, ciò a cui proprio non si è voluto rinunciare è la cura dello stile. A discapito di una storia che si svolge quasi esclusivamente in interni, si è optato per un formato panoramico. La splendida fotografia di Fabrizio Pasqualetto dà valore alle lunghe inquadrature e lente carrellate. Montecchi infatti non teme di cominciare subito con un campo largo fisso per oltre tre minuti su una scena priva d’azione. Così come nei dialoghi, laddove altri registi avrebbero optato per il semplice campo e controcampo, esclude volentieri i volti dei protagonisti dall’inquadratura. A proposito di questi ultimi, sono entrambi bravi ma la vera rivelazione è senza dubbio l’americano Luigi Busignani. Abilissimo nell’esprimersi con il corpo, gli bastano due passi sulle note di una canzone jazz per raccontarci più di dieci pagine di sceneggiatura.