Hagazussa: A Heathen’s Curse
Sulla scia di "The Witch", ma con personalità, finezza e talento.
I film spartiacque abitano i confini fra epoche che essi stessi hanno concorso a determinare, creando nuovi mondi iconici, inedite mappe del visibile. The Witch: A New-England Folktale di Robert Eggers presenta proprio tali caratteri, collocandosi fra i titoli odierni più noti e riusciti nello sfruttare le possibilità offerte dal mezzo cinematografico per celebrare il rito della (rappresentazione della) paura, attraverso il realismo della messa in scena, in assenza totale del ricorso a qualsivoglia soluzione spettacolare e infine rigettando la stragrande maggioranza della produzione horror coeva. Inoltre, tutt’altro che in subordine, il lavoro di Eggers ha il merito di focalizzarsi sulla componente mitica della Storia, sulle idiosincrasie e i fantasmi che proliferano nell’immaginario popolare, indagandone la scaturigine ancestrale e soprattutto risvegliando l’interesse registico e critico per quel filone, trasversale a diverse cinematografie ed epoche, definibile come folk-horror.
Hagazussa: A Heathen’s Curse dell’austriaco Lukas Feigelfeld, fin dal titolo (il termine alto-tedesco “Hagazussa” – da cui i più moderni “Hexe” per strega ed “Hexer” per stregone – indicava in origine il sapiente, in seguito colui/colei che praticava sortilegi o possedeva l’arte della divinazione), muove i propri passi sul sentiero che Eggers ha reso nuovamente visibile, sia nell’urgenza di far riaffiorare, tramite lo scavo storico-antropologico del passato, alcune delle angosce primordiali e delle conseguenti superstizioni di cui si è nutrito l’uomo (occidentale) nel corso dei secoli, sia nella propensione ad aderire allo spirito appunto di tale passato, attraverso la messa in scena. Hagazussa mette in immagini una dolorosa vicenda di solitudine e abiezione sullo sfondo delle Alpi austriache nel XV secolo, nel contesto di una minuscola e isolata comunità montana, in cui le pratiche del cristianesimo si fondono sincreticamente con antiche credenze pagane.
Fulcro del racconto è Albrun (Celina Peter da bambina, Aleksandra Cwen da adulta), da cui si dipartono e verso cui convergono pressoché tutti i vettori di senso di un film in cui la presenza muliebre è egemone, mentre quella maschile risulta quasi sempre una mera appendice. Escluse alcune immagini di raccordo in apparenza puramente denotative, e tuttavia potentemente connotative nello sviluppare l’atmosfera di minaccia e solitudine voluta dal regista, in cui a dominare è l’incombente natura alpestre, selvaggia, indifferente e priva di presenza umana, la narrazione è focalizzata sul personaggio principale, sul suo punto di osservazione degli accadimenti, sulle sue reazioni emotive. A scandire la progressione degli eventi provvedono i quattro capitoli in cui è suddiviso il film (“ombra”, “corno”, “sangue”, “fuoco”), principi-simboli di una liturgia pagana, anziché mere denominazioni di segmenti narrativi. Hagazussa può infatti essere letto come il rito iniziatico di una donna bandita dalla propria comunità in quanto ritenuta strega, e costretta a comprendere l’essenza della propria condizione senza ausili esterni, bensì unicamente tramite la natura e la sua costitutiva conflittualità fra principi opposti, essendo invece il versante umano caratterizzato da un Male endemico, contagioso e unilaterale. Infatti, se la natura è dispensatrice di vita e morte, nutrimento e malattia, riparo e intemperie, senza connotazioni morali, l’umanità descritta da Feigelfeld (in questo, forse debitore di suoi compatrioti come gli scrittori Bernhard e Jelinek, o come i registi Haneke e Seidl) è sentina di depravazioni, violenza, crudeltà, pregiudizi o, nella migliore delle ipotesi, di gelida impassibilità. Mentre la peste da cui è affetta la madre di Albrun (Claudia Martini) – quando questa è ancora bambina – è traccia di inevitabili processi naturali, il morbo psicotico di cui si fa portatrice la crudele Swinda (Tanja Petrovsky), molti anni dopo, è al contrario indice di aberranti elaborazioni di tipo culturale, essendo ella alla ricerca di prove della stregoneria praticata da Albrun. Il vile tradimento di Swinda nei confronti di quest’ultima, dopo un affettuoso approccio amicale, conduce a un altro tipo di contagio, forse più esiziale di qualsiasi patologia fisica, visto che porterà Albrun a trasformare irreversibilmente la propria psiche e a rifugiarsi nell’unico ruolo sociale rimastole, quello di strega. In una sorta di contrappasso, Albrun avvelenerà la fonte principale di acqua potabile della comunità che l’ha respinta, attraverso la diffusione volontaria di una nuova pestilenza: molti suoi concittadini subiranno la medesima sorte a cui era stata condannata la madre, abbandonata da tutti per paura del morbo, ma soprattutto per il suo essere così difforme – senza marito e madre di una ragazzina, esattamente come Albrun anni dopo – dalle regole della collettività. Nel finale, Albrun lascerà alle spalle definitivamente quel che resta del villaggio e, insieme alla piccola figlia, si abbandonerà a una comunione allucinatoria con il bosco e le montagne circostanti, riscoprendo ancora una volta quanto sia difficile la vita, stupefacente la natura nelle sue mutevoli sfumature, facile ma mai indolore la morte.
Feigelfeld sviluppa una partitura visiva fitta di segni e simboli, ipnotica e ossessiva, pregna di un onirismo trionfante e tuttavia “realistico”, punteggiata a tratti da un tedesco biascicato e arcaico, ritmata dalle impressionanti e arcane sonorità dei greci Mohammad (noti anche come MMMD): una sorta di danse macabre di cui è arduo decifrare il codice, vista la rarità dei dialoghi e l’assenza di qualsiasi sottolineatura didascalica. Ecco allora che l’oscurità del senso diviene il senso dell’oscurità, l’unico modo per delineare l’enigma – della vita, della morte, dell’essere delle cose, del Bene e del Male, di un passato storico divenuto mito, leggenda – è lasciarlo inespresso. Un film crudele e magnetico come pochi.