L'uomo sulla luna
Nel cuore della Sardegna, un gruppo di vedove racconta di un immaginario disperso dall'arrivo della modernità
Di “un altro mondo, serrato nel dolore e negli usi”, “di una terra dove il contadino vive la sua immobile civiltà nella presenza della morte”, scriveva Carlo Levi, nel celebre Cristo si è fermato a Eboli, nel 1945. Lucania, angolo di mondo sommerso, rivelatosi alla modernità, quale emblema della persistenza incondizionata della civiltà arcaica meridionale tout court.
Col documentario L’uomo sulla luna , il regista Giuliano Ricci, torna a suggerire l’impassibilità di una cultura arcana al progredire laico e tecnologico dell’umanità. Il centro dell’osservazione partecipata è in questo caso il villaggio di Orune e i suoi dintorni, tra i monti della Barbagia, nel cuore della Sardegna, una sorta di oasi di miti e rituali antichi, in cui le donne più anziane (ma non solo loro, a quanto mostrato dalle macabre sequenze delle feste di paese) custodiscono e perpetuano un costante dialogo con la morte, con i cari e i rivali defunti, sospesi a metà tra questa vita e quella ultraterrena. E mentre la carcassa di un’auto arrugginisce nel podere di un contadino dedito al lavoro silente nella natura selvatica, segno dell’irrilevanza dell’accelerazione dei tempi, la voce senile di una donna,quasi totalmente avvolta nelle vesti nere, prorompe per narrare di un sogno triste. La tradizione antica di districare i sogni, interpretarli alla luce di codici radicati nella simbologia naturale e nelle consuetudini è il limbo, il ponte di congiunzione in bilico tra la vita e la morte, in cui le anime ancora in pena agitano e agiscono i vivi, prefigurando loro una qualche perdita. Le donne sono per tradizione le interlocutrici e le visitatrici privilegiate di questa dimensione estremamente sensibile, in una perenne continuità tra la luce del sole e la veglia onirica, le donne accettano e reggono la presenza palpabile di coloro che furono. Dinanzi alle lapidi nel cimitero appellano ciascuno col proprio nome, perché la cronistoria e la memoria genealogica non si perdano, paradossalmente senza neppure accennare al pericolo che ad incorrere nel rischio di perdersi sia in realtà la loro stessa “presenza”, in quella specifica accezione che dava al termine l’etnologo Ernesto De Martino, ovvero il sentirsi partecipe di un determinato contesto dotato di senso. Queste donne ormai curve , segnate dal peso votivo del nero, più che dall’età avanzata, serbano in sé la stratificazione di quella pragmatica saggezza apotropaica, che per secoli ha costituito per la cultura contadina la concezione dell’ordine del mondo, di un mondo tuttavia in continua evoluzione. Il cinema, per lo più di finzione, d’altro canto, quale agente e riflesso della medesima realtà in divenire, sovente attinge a piene mani da tali mitologie e credenze popolari, per restituirci proprio il mutare dei tempi e del Sud, e proprio facendo ricorso al dispositivo onirico, quale linguaggio condiviso. Esemplare nella cinematografia italiana il film Tre fratelli, del compianto Maestro Rosi , cui hanno fanno eco epigoni contemporanei della tradizione meridionalista sul grande schermo, per citarne alcuni, Edoardo Winspeare e l’esordiente Fabio Mollo.
La “crisi della presenza” teorizzata da De Martino non tocca affatto queste donne che presagiscono certo a modo proprio i risvolti negativi di quel futuro, ormai passato, entrato di forza nella loro vita, la globalizzazione televisiva per esempio e il suo flusso continuo di immagini. Perché per loro la fruizione televisiva non restituisce alcun impulso dialettico, alcun significato da decifrare, alcun piacere della visione, quale possono ancora offrire invece la disquisizione sui ritratti dei Papi, in una interazione parasociale che solo il compromesso tra fede e credenza ha saputo antropologicamente saldare.