MAMbo / Archivi Migranti: surrogates from elsewhere
Archivi queer in viaggio
Lo scorso weekend si è conclusa la tredicesima edizione del Gender Bender International Festival: felice e polimorfa realtà bolognese, ideata e prodotta dal Centro di Documentazione Cassero LGBT center, e dedicata ai temi del corpo, dell’identità di genere, della sessualità e della loro rappresentazione nell’immaginario contemporaneo. Il miscellaneo programma del 2015 ha spaziato, solo per fare qualche esempio, dal documentario di Jack Walsh, Feelings are facts: the life of Yvonne Rainer (2015), sulla provocatoria figura dell’artista americana, allo spettacolo di teatro danza di Er Gao, tra i più importanti coreografi cinesi contemporanei, che ha presentato in anteprima DISCO-TECA, un’indagine sull’influenza della disco music occidentale nella Cina di fine anni Settanta e del suo impatto sovversivo sulla società e sulle imposizioni comportamentali vigenti; il festival ha presentato inoltre la versione integrale restaurata dell’ultimo controverso film di Pasolini, lo scioccante e violento Salò o le 120 giornate di Sodoma del 1975, e ancora conferenze, concerti, dj set e naturalmente mostre.
Caratterizzato sin dal suo esordio, avvenuto nel 2003, da una sostanziale interdisciplinarità, Gender Bender intercetta le rapide trasformazioni in seno alla cultura contemporanea, diventandone a sua volta catalizzatore, e fa dell’abbattimento delle frontiere e degli stereotipi (sociali, politici e culturali) sua meta e suo metodo al contempo. Una mostra come Archivi migranti: surrogates from elsewhere esemplifica per più di un motivo tale insofferenza nei confronti di confini rigidi e impenetrabili e, sebbene sia terminata con il festival, merita di essere raccontata. Si tratta di un progetto itinerante (già passato a San Francisco e ad Amsterdam) dell’artista americana E. G. Crichton che dal 2012 ricerca, seleziona e presenta le storie degli archivi LGBT sparsi in giro per il mondo col duplice obiettivo di farli conoscere al pubblico e di creare legami e connessioni tra le stesse organizzazioni. L’artista gioca con il proprio ruolo ponendosi come curatrice dell’esposizione e come animatrice di un dialogo che trascende i limiti spaziali e per fare ciò si affida prima ancora che alle immagini e agli oggetti alla narrazione che ogni protagonista coinvolto è chiamato a fare della propria realtà. La mostra, allestita nella sala conferenze del MAMbo, ricorre all’incisività della scrittura e dell’oralità di queste testimonianze personali esaltandone l’efficacia: la memoria non è racchiusa in pochi oggetti concreti che chiedono di essere decifrati ma si svela nella chiarezza delle descrizioni degli archivi e delle storie delle persone che li hanno creati o che hanno posseduto gli oggetti presenti nelle singole raccolte; questi profili sono stampati su tredici tele cerate a fondo bianco, una per istituzione, che pendono dalle pareti e sono accompagnati solo da poche immagini. Alcune citazioni estrapolate dai racconti ricoprono in ordine sparso altre quattro tele colorate collocate al centro della sala e ritornano, recitate in diverse lingue e amplificate da un paio di casse, invadendo lo spazio uditivo circostante. Non mancano certo anche gli oggetti, ricreati ad hoc dalla stessa artista con la collaborazione delle organizzazioni coinvolte e destinati come dono simbolico al Cassero, ma proprio per la loro discreta presenza sembrano essere altrettanto subordinati alla necessità di narrare. Tale debordante presenza della parola è prima di tutto una rivendicazione del diritto di raccontare, di costruire liberamente la propria storia, la propria memoria, un riscatto per contrasto dal silenzio, dalla discriminazione, dalla censura, dall’emarginazione, come afferma E. G. Crichton: “per le persone LGBT, le cui tracce sono ancora frequentemente cancellate dalle famiglie, omesse dalla storia ufficiale o semplicemente perdute, questi archivi sono un modo per ricrearsi una genealogia, una storia. Archivi Migranti è un passo in più verso questo processo, vitale e molto queer di autocostruzione storica”.
Istituzioni di grosso calibro, come i National Archives britannici presenti in mostra con due documenti (uno dei quali è la richiesta di grazia avanzata da Oscar Wilde nel 1895) a testimoniare la dura repressione perpetrata per anni dallo Stato inglese contro gli omosessuali incarcerati per “atti osceni e indecenti”, sono affiancate da più piccole organizzazioni, come l’ungherese Labrisz Lesbian Association unica associazione lesbica presente a Budapest, o Rukus! associazione culturale che riunisce artisti e attivisti della comunità black LGBT inglese, fino ad arrivare alla raccolta di memorabilia di un ristorante delle Filippine. Gli archivi così abbandonano metaforicamente le proprie sedi con un’operazione dal sapore concettuale e antropologico, migrano grazie a questi succedanei, i surrogates del titolo, e formano una costellazione nuova, un dialogo che rifiuta di essere paralizzato e vincolato dai limiti geografici: viene ribaltata la convenzionale idea di archivio come organo statico rianimato dalla presenza più o meno occasionale di curiosi e ricercatori, mentre le storie e i racconti raggiungono nuovi gradi di visibilità, emancipandosi da una condizione spettrale vengono dunque fatti rivivere.