Man in the Dark
La furia cieca di Fede Alvarez in un horror dal piglio indipendente e dall'anima feroce .
Non fosse stato l’altisonante remake de La casa a catapultarlo di colpo nell’industria cinematografica statunitense e mondiale, parrebbe quasi essere alla sua opera prima l’uruguaiano Fede Alvarez.
Questo perché Man in the Dark (Don’t Breathe, il più evocativo titolo originale), piccolo e claustrofobico horror di assedio che ribalta certezze e aspettative in un gioco dai riverberi hitchcockiani, ha la forza e la sincerità del più folgorante degli esordi e del più schietto e genuino dei film a basso costo.
Che Alvarez fosse un regista dotato e consapevole lo si era già potuto osservare proprio nell’interessante, e a suo modo personale, rivisitazione del cult di Sam Raimi, eppure è all’insegna di un’originalità inaspettata che prende le mosse questo oscuro e distorto film d’assedio capovolto, questo home invasion rovesciato di segno.
Abbandonando demoni e soprannaturale è nella cupa realtà suburbana e periferica di una Detroit più che mai desolata che pare gettare il suo sguardo il regista, solo per poi perdersi in un orrore ancora più oscuro e perturbante.
In fondo, cos’è se non un altro spettro, un’altra presenza ineffabile e minacciosa il vecchio cieco proprietario di quella casa fatiscente che tre giovani sbandati – in cerca di soldi facili e di un futuro differente – decidono di rapinare.
É proprio quel misterioso reduce dell’esercito con più di uno scheletro nell’armadio (o in cantina), a ribaltare di segno le più consolidate logiche del genere e a tramutare ben presto gli improvvisati carnefici nelle vittime sacrificali per eccellenza.
Gettati nella tana del mostro, nella penombra soffocante di un limbo che stravolge i punti di vista e confonde bene e male, empatia e repulsione, mentre la violenza assale improvvisa l’inquadratura per poi rituffarsi nel buio, gli sventurati protagonisti accettano, loro malgrado, il ruolo di prede e, insieme, le leggi di un mondo decisamente differente che non sanno e non possono vedere.
Dosando in maniera perfetta il ritmo e i molteplici colpi di scena, le attese e gli shock emotivi, costruendo almeno un paio di sequenze da antologia e dando vita ad un personaggio agghiacciante e memorabile (merito, questo, di uno Stephen Lang sopra tutti e tutto), Alvarez gioca sul visibile e l’invisibile, la luce e il buio, l’orrore e il cinema, dimostrando di essere ben più di un bravo mestierante.
E se, tra rivelazioni e ribaltamenti a non finire il troppo rischia, più di una volta, di stroppiare, poco importa. Quello che resta basta e avanza.