Mancanza - Inferno
L'Aquila ferma al 2009. Dimensione sospesa sui versi delle Elegie Duinesi di R.M. Rilke
L’operazione low budget Mancanza – Inferno, firmata dal video artista italo-olandese, Stefano Odoardi, è il primo capitolo di una trilogia in fieri, che invita lo spettatore ad affrontare, attraversare, risalire il senso e la sensazione esistenziale di mancanza, “Il vuoto che tutti noi cerchiamo di riempire vivendo”, iniziando col ri-discendere agli inferi più concreti e immediati del nostro tempo. L’invito ad intraprendere un viaggio di riemersione, che sia ripensamento di sé, nel e del mondo, e al contempo sollievo da quella congerie di ceneri e rovine, che questo stesso mondo, caduco e transitorio, è per natura pre-disposto a divenire.
Il luogo - sventura (mai direttamente citati, ma inequivocabilmente riconoscibili) eletto ad emblema dello stato di dannazione e pena, è l’Aquila, paradossale nuova Pompei post moderna, istantanea muta di un frangente che è già insostenibile atemporalità rimessa alla storia. “Epicentro” in cui le anime-vittime non sono afasiche e granitiche sagome di carbone, ma ancora abitano e sussurrano nei corpi pur sempre inermi. Complementare a voler contemplare un inferno è invocare a sé una guida. Ma voler contemplare per rielaborare il trauma materiale ed acquisire una salvifica, quanto immaginifica, dimensione spirituale, condicio sine qua non della tensione paradisiaca, necessita di una guida, si poietica, ma archetipica, raccordo ultraterreno, sublimazione dell’umano, onniscienza del creato.
Odoardi sceglie di affidare la conduzione dell’opera alla figura angelica della visione Rilkiana, spirito cosmo(a)gonico, in cui è già compiuta la trasformazione ultima della sofferenza visibile nell‘invisibile, cui tende il poeta nelle “Elegie duinesi”: “[…] il riconoscimento di un più alto grado di realtà nell’invisibile. Dunque, terribile per noi, […] perché noi dipendiamo dal visibile”.
Il visibile qui è una città fantasma, piazza deserta e mortifera in cui campeggia la facciata di una chiesa, sinonimo di arte, cultura, fermento che fu, al cui latere fa capolino, appendice di fortuna nel disastro, una tenda d’accoglienza, precario soccorso dalle intemperie, relitto arenato sullo scrosciare di una ornamentale fontana in pietra. Mai come qui la pietra non è costruzione, ma lapide, e gli assi di legno alle finestre sventrate non sono sostegno, ma croci . La sopravvivenza si è rintanata altrove.
L’angelo sopraggiunto, al richiamo di “oscuri singhiozzi”, è interpretato dall’attrice Angelique Cavallari, che bene rende con la propria mobilità e penetrabilità di sguardo gli angeli di R. M. Rilke: “[…] tumulti d’un sentire turbinoso, rapito, e ad uno ad uno, d’un ratto specchi: che la bellezza effluita riattingono in sé, nel volto ch’è proprio”. Calpesta il silenzio e l’odore del marcio, declamando la consapevolezza e la missione dell’essenza celeste che la poesia traduce in terra : “Voci, voci. Ma lo spiro ascolta, l’ininterrotto messaggio che da silenzio si crea. Ecco fruscia qualcosa da quei giovani morti e viene a te. Che vogliono da me? Ch’io debba rimuovere lieve quella parvenza d’ingiusto che turba il moto puro dei loro spirito”. Ma il moto puro non è che un girare in tondo, il vuoto interiorizzato e reiterato dentro un reticolato, recinzione di cumuli di macerie e rifiuti urbani, tra cui fluttuano putridi i pensieri.
Venti attori non professionisti, uomini e donne, ragazzi e adulti, aquilani, improvvisano, semplicemente prestano la geografia dei propri volti al lamento dell’animus loci, stanato a forza dal fondo di ognuno, rimosso dalla coscienza collettiva, eppure lì, spettro introiettato di privazione e tangibile sfacelo.
“Non è solo il dolore delle cose perse, è che a un certo punto capisci che l’unica cosa che hai è l’assenza” sentenzia qualcuno; “la percezione è come di essere senza peso, non incidenti nelle cose nelle occasioni, senza traccia” soggiunge qualcun altro; “quello che io vedo non c’è più, anche i gesti”, prosegue il successivo. Persino lo slancio più vivace, danzare tra i ruderi, è solo un mormorare ruvido e sassoso nel silenzio imperturbabile. L’angelo di Odoardi per certi versi contamina il simbolismo rilkiano con l’angelico cinematografico wendersiano, il messaggero divino sempre reca con sé l’ascolto asincrono in voice over e il conforto leggiadro dell’abbraccio, non sempre risolutivo, ma essenziale per la vita al di sotto del cielo.
Al di là di quest’abbraccio rasserenante, augurio, più che promessa di rinascita,sancito dai versi “Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca”, a cui il regista affida un epilogo, che non è fine, ma mantra, a marcare la memoria, sovviene l’angelo ancestrale benjaminiano,” l’Angelo della storia”. Nella galleria delle figure celesti nate dai lumi troppo umani, per vincere la propria natura, forse la ri - visualizzazione di Walter Benjamin è quella che più si addice alla trilogia sperimentale di Odoradi: “[…] un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo[…] Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro […]” (dalle tesi Sul concetto di storia).