Marketa Lazarová
Una delle massime espressioni del cinema cecoslovacco degli anni ’60, un gioiello visivo (e acustico) senza tempo che sfida la storia per far emergere il Mito.
La capacità dell’immagine filmica di far affiorare il Mito, non in guisa di vestigia riattualizzate in un contesto spaziotemporale ad esse costitutivamente estraneo, bensì cogliendone lo spirito originario e arcano, deve probabilmente fare i conti con quella che Pasolini individua come la doppia natura del cinema, ovverosia i due livelli che ne articolano la significazione visiva: uno, esposto e razionale; l’altro, sotterraneo e irrazionale. Entrambi coesistono in molte opere, con la predominanza del primo, com’è facilmente intuibile, nel contesto della narrazione classica. E tuttavia, è solo nel secondo che emerge “l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria” del visibile.
In Marketa Lazarová, František Vláčil non solo sembra accogliere la lezione di Pasolini, ma la spinge alle estreme conseguenze, optando per il superamento continuo del razionale tramite l’irrazionale, sia sul versante del racconto sia su quello del linguaggio filmico. Inoltre, si possono riscontrare altre assonanze con la riflessione pasoliniana nella difficoltà del regista e dell’altro autore dello script, František Pavliček, nell’adattare (la “struttura che diventa altra struttura”) il romanzo di Vladislav Vančura Il cavalier bandito e la sposa del cielo, da cui il film è tratto. Si parla di un arco di tre anni (1964-1966) solo per terminare la fase di stesura.
Marketa Lazarová mette in scena l’antagonismo fra due clan rivali e i loro rispettivi leader, Kozlik (Josef Kemr) e Lazar (Michal Kožuch), nella Boemia del tredicesimo secolo, retta dalla dinastia Přemyslide e ancora divisa dal lacerante scontro fra paganesimo e cristianesimo. La rivalità fra i due uomini, che coinvolge anche il re moltiplicando i fattori di conflitto, si estenderà ai figli di entrambi, innescando una fatale reazione a catena.
Film radicalmente polifonico, Marketa Lazarová si delinea come un’autentica liturgia del caos, che – fatta parziale eccezione per la protagonista del titolo – non concede alcuna, neppur minima, possibilità di riscatto. Una narrazione rapsodica, che si focalizza sui molti personaggi privilegiandoli tutti, quindi senza condurre all’identificazione con qualcuno di essi in particolare, accompagna lo spettatore in una sorta di girone dantesco, in cui a dominare sono le pulsioni di morte, di potere, di vendetta. Nemmeno Marketa (interpretata da un’intensa Magda Vášáryová) riceve attenzioni maggiori delle altre figure – vista anche la sua assenza in molte sequenze significative della seconda parte dell’opera – salvo nel finale, in cui, a differenza degli altri personaggi centrali, riesce a intravedere un tenue spiraglio di riconciliazione con la vita. Il ricorso continuo all’analessi, senza marche espressive che delimitino i piani temporali, mette in comunicazione il presente con il passato senza soluzione di continuità, creando la vertigine di un unico Tempo del racconto, in cui i rapporti di causa-effetto e l’intelligibilità dell’intreccio vengono sospesi per vivificare i volti, i gesti, le posture, per far uscire dalla latenza le segrete trame che legano le ferite del corpo a quelle dello spirito.
A Vláčil non interessano né la storia antiquaria né la storia monumentale, avendo egli come movente principale l’urgenza di lasciar trasparire il fosco Zeitgeist di un’epoca torva eppure vitale, di lasciar intravedere il Mito che si agita sotterraneo sotto le spoglie della cronaca. Ecco allora che trovano una coerenza interna all’opera sia gli elementi tematici sia quelli stilistici e narrativi, che convergono verso una realtà inserita indubbiamente nel tempo circoscritto del resoconto storico-aneddotico, che nondimeno diviene altro da sé, trasformandosi nell’atemporalità del sempre-essente, dell’universale che permea trasversalmente le vicende umane, riunendole sotto le insegne di un destino comune. Ordine e disordine, razionale e irrazionale si contrappongono sia nel contesto della diegesi sia in quello della messa in scena: la risoluzione del confronto si configurerà a favore dell’irrazionale in entrambi gli ambiti, conducendoli a un dialogo incessante e fecondo, a una ideale comunione di intenti ed esiti. Là dove il medioevo della narrazione si configura come età del caos barbarico, rappresentato da innumerevoli interessi locali in lotta fra loro, un caos temperato a fatica dall’ordine trascendente del divino, incarnato dalla Chiesa, e da quello immanente del potere temporale, personificato dal monarca, allo stesso modo il visibile e l’immagine sono il dominio del caos dei segni, un dominio strutturato dal regista per veicolare frammenti di senso più o meno ampi e per rendere più o meno discernibile l’insieme. In Marketa Lazarová, se nella diegesi sono i poteri centrali a vacillare al cospetto delle ambizioni private, nella messa in scena a vacillare è l’assetto regolato degli eventi, continuamente disatteso dall’accostamento libero, immaginoso e genialmente arbitrario, tramite il montaggio, di eventi distanti nel tempo e nella consequenzialità logica. Vláčil decide infatti di lasciar prevalere il proliferare dei significanti (e dei personaggi) a discapito dei significati; di rompere continuamente la grammatica filmica e la chiarezza espositiva a favore di una sorta di incessante flusso di coscienza; di fondere figura e sfondo, ergendo l’ambiente spoglio, scarno, primordiale, e reso ancor più spettrale dal bianco e nero, a protagonista aggiunto e onnipresente. In tal modo, lo sviluppo narrativo tende a corrispondere all’effettiva disposizione dei fatti, e questi ultimi, così come la maggior parte delle vicende umane, non rientrano in alcuna sistemazione logico-matematica del reale, bensì si irradiano seguendo gli arabeschi beffardi del caso, le sottili volute del fato, il cui compimento è, per tutte le creature che abitano sotto il sole, la dissoluzione.
Forte di un impianto visivo di prim’ordine, grazie anche al magnifico bianco e nero di Bedřich Baťka, e di una complessità stilistica con pochi eguali, impreziosito dalla colonna sonora del grande Zdeněk Liška, basata su melodie tradizionali e canti gregoriani, Marketa Lazarová è senza dubbio uno degli esempi più fulgidi non solo del cinema cecoslovacco, ma di tutta l’Europa dell’est prima della caduta del Muro. Un territorio filmico ancora semisconosciuto e ancora in buona parte da esplorare.