Kwaidan
I vivi sono pallide ombre là dove i morti rifulgono di luce propria. Il primo lavoro a colori di Kobayashi si rivela come uno dei film di fantasmi più seducenti mai portati su grande schermo.
Realizzato all’apice della carriera di Masaki Kobayashi, sic et simpliciter uno dei più importanti cineasti giapponesi di sempre (anche se ingiustamente meno noto, in Italia, di altri nomi fondamentali quali Ozu, Mizoguchi, Kurosawa), Kwaidan si configura come una delle sue opere più ambiziose e magmatiche, nonché come un vero e proprio unicum della sua filmografia, capace nondimeno di rielaborare coerentemente, sia pure sotto altre spoglie, temi e suggestioni già presenti nella sua produzione.
Dopo aver affrontato la deriva del Giappone postbellico nel polemico – specie nei confronti della colonizzazione occidentale – Black River (1957), e poi direttamente la tragedia della seconda guerra mondiale nella monumentale trilogia, per molti versi autobiografica, La condizione umana, completata nel 1961, Kobayashi gira Harakiri (1962), un jidai-geki calato nel Giappone pacificato ma problematico del XVII secolo, all’indomani della sanguinosa era Sengoku (1467-1603). In quest’ultimo, il dramma storico funge da elemento allegorico e metaforico (così come nel lavoro successivo a Kwaidan, cioè L’ultimo samurai, del 1967) per puntare il dito contro il retaggio del sistema di valori della società nipponica feudale, una delle concause della disastrosa partecipazione al conflitto mondiale. Harakiri si configura, tuttavia, anche come un j’accuse che supera la contingenza storica, per toccare uno dei temi più sentiti da Kobayashi, quello del rapporto problematico fra individuo e potere, fra necessità privata e dovere pubblico
In seguito alla consacrazione internazionale legata a La condizione umana e Harakiri, e potendo contare su una produzione sontuosa e costosissima, Kobayashi si cimenta nell’impresa di mettere in immagini il folclore del proprio paese. Il riferimento letterario all’origine della sceneggiatura elaborata da Yôko Mizuki è costituito da Kwaidan: Stories and Studies of Strange Things, una collezione di racconti tradizionali nipponici raccolti da quell’individuo davvero singolare che fu Lafcadio Hearn, greco-irlandese giramondo, emigrato dapprima negli USA e, dal 1889, in Giappone, dove sposò una donna della città di Matsue e assunse il nome di Yakumo Koizumi.
Kwaidan (letteralmente: “storia di fantasmi”), primo film a colori di Kobayashi, mette in scena quattro vicende accomunate dal legame fascinoso e perturbante fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Nel primo, Capelli neri, un samurai fa ritorno nella dimora originaria, dopo averla abbandonata anni prima per cercare fortuna in una lontana provincia, e crede di trovarvi la prima moglie, da lui ripudiata. In Donna delle nevi, si assiste alla dolorosa storia d’amore fra la donna del titolo (una yuki-onna, spettrale presenza femminile che, secondo la tradizione, abita spazi montani innevati e aggredisce i viandanti per carpirne l’energia vitale o sottometterne la volontà), uno spirito inquieto alla ricerca di un uomo di cui fidarsi totalmente, e il suo sposo, un umile boscaiolo eccessivamente ciarliero. Ne La storia di Hoichi senza orecchie, si narra di un talentuoso biwa hōshi (monaco itinerante cieco, suonatore di biwa), che viene insidiato dagli spiriti dei nobili guerrieri di cui canta le gesta. Nel quarto episodio In una tazza di tè, si intrecciano le vicende di uno scrittore di fine Ottocento con quelle di un samurai di due secoli prima, perseguitato da uno spettro che si annida nei recipienti usati dall’uomo per abbeverarsi.
Più affini al gusto e all’immaginario occidentale, i primi due segmenti risultano probabilmente anche i meno originali nello sviluppo narrativo, venendo vivificati, nondimeno, da una regia assai elaborata nell’uso della scala dei piani, dei movimenti di macchina, dei chiaroscuri e dei raffinatissimi cromatismi in funzione espressiva. La parte conclusiva del primo è uno dei rari frammenti di horror puro del film, capace di sfruttare con un’estrema e abile stilizzazione dell’azione, tramite un montaggio affilato ed essenziale, il topos ricorrente nell’immaginario soprannaturale nipponico della figura femminile nero-crinita. Il secondo riprende tale figura e la inserisce in un orizzonte visivo fiabesco prossimo alla pittura (con il bianco “acromatico” della neve a fungere da controcanto al rosso acceso e al blu avvolgente delle sequenze più intense), pervadendo il racconto filmico di un’aura assorta e sognante. Entrambi, infine, veicolano un malinconico sottotesto melò, filo conduttore sotterraneo di molti dei drammi di Kobayashi.
Il terzo e il quarto episodio esondano nel teorico, esplorando alcuni confini della meta-testualità: il corpo di Hoichi diverrà (testo) sacro, venendo ricoperto con le parole-segni di un rituale apotropaico, anche se i demoni che lo insidiano riusciranno comunque a ottenere un pegno di sangue dal giovane; nell’ultimo segmento, un testo letterario colonizzerà il testo filmico, mentre un’anima posseduta (quella di un samurai), a sua volta possiederà quella dello scrittore che ne racconta i tormenti: ne scaturirà una vertiginosa mise en abîme. In entrambi, infine, si teorizza la necessità del sacrificio individuale per raggiungere il sublime dell’arte, la sua più compiuta espressione. Per esteso, l’offerta di sé, in vista di un ideale trascendente rispetto alle secche della condizione terrena e ai lacci di regole ottuse e disumane, è uno degli elementi fondativi dell’etica di Kobayashi, capace di trasformarsi, nelle immagini dei suoi lavori, in estetica della lotta, in poesia del corpo in movimento.
Uno dei budget più smisurati del cinema nipponico di ogni tempo, un parterre di collaboratori di eccelso livello, un anno di riprese in un gigantesco hangar dismesso e interamente adattato a set: Kwaidan fa il paio, come immensità delle ambizioni, con La condizione umana. Mentre in quest’ultimo, tuttavia, la dis-misura – innanzitutto della durata, 9 ore abbondanti – esprimeva il groviglio di temi politici, storici, etici, autobiografici affrontati da Kobayashi, conducendo a un cinema-mondo popolato di un’umanità allo sbando e preda di una sorte rovinosa, in Kwaidan essa dispiega un cinema-sogno dietro e fra le quinte di un teatro sconfinato, le cui mille aperture sono rivolte esclusivamente al suo interno; una sorta di mito della caverna rovesciato, in cui il vero essere non ha importanza, perché esistono solo le ombre. Si tratta di un sogno più grande della vita stessa e la cui unica realtà è l’immaginario di un popolo – quindi la sua più riposta e inscalfibile interiorità – ormai colonizzato all’esterno da sistemi di valori e iconografici alieni. Ecco allora che, se gli innumerevoli personaggi alla deriva di gran parte del cinema di Kobayashi sono simili a figure larvali prossime alla dissoluzione, i fantasmi di Kwaidan paiono, al contrario, animati dall’incrollabile vitalità del mito. E il mito, si sa, non è sottoposto alle ingiurie del tempo e della storia né al fatale destino dei mortali.