Atlantique
Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes 2019, Mati Diop racconta una storia di corpi invisibili e d’amore, unendo la componente sovrannaturale e di genere a un’adesione visiva al reale.
Lo sguardo di Mati Diop verso l’Atlantico, l’Atlantique, dal titolo della sua opera prima, nella strettissima relazione che intercorre tra l’individuo e l’altro – e l’ambiente, in questo caso ostile, sia in mare che sulla terraferma – non può che essere iniettato di quel particolare sentire le cose del mondo, i ricordi, la pelle, le ferite, che tanto l’avvicina alle coordinate del cinema di Claire Denis. L'ascendenza della regista francese è evidente nella contemplazione ravvicinata dei corpi, nei primissimi piani e nel calore emanato da certe inquadrature e sequenze, rese infinite e sospese, come il passaggio iniziale di Atlantique, in cui il campo-controcampo spezzato dal passaggio di un autobus, mentre Ada e Suleiman si guardano, ricorda, negli umori e nel clima, la sequenza della panetteria in Nenette et Boni o quella di Notre-Dame in Trouble every day: la stessa dilatazione dell’immagine e del suo effetto sconfinante.
Diop parte da queste premesse per raccontare una storia di perdita e fantasmi, i fantasmi degli uomini insepolti nei mari e nell’oceano che riprendono vita nei corpi delle loro mogli, “possedendoli” per tornare a esigere il debito non pagato di un padrone locale. L'anima di Suleiman si materializza nel corpo di quell’ispettore di polizia che crede sia ancora vivo, che proprio lui abbia appiccato l’incendio in casa di Omar, il riccastro che Ada avrebbe dovuto sposare; ma quell’incendio si rivelerà poi essere una maledizione, la materializzazione di una colpa, o meglio di un senso di colpa atavico, trovando, Atlantique, un’assonanza con un altro titolo importante di quest’anno: Zombi Child di Bertrand Bonello, entrambi visioni che filtrano la Storia. Nel suo cinema i corpi messi in scena sono sempre dimidiati, ce n'è uno carnale, plastico, visibile e un altro fantomatico, che si ri-assembla nel corso del tempo, qui rievocando, da parte della protagonista, la brutalità dello schiavismo, reso dal cineasta francese attraverso una lente deformante, quella del genere e della riproposizione dell'immaginario zombie. Il ricordo dello schiavismo di cui fu vittima il suo lontano zio “ritorna” più di cinquant’anni dopo nelle vesti di un anatema che avrebbe condannato la ragazza a vivere nel suo medesimo stato di trance, non-morta come i personaggi di Atlantique.
Costretti a transitare, quindi, attanagliati in limbi di attese, ricerche – il desiderio della Spagna, la speranza che un giorno, non appena approdati, questi uomini avrebbero chiamato le proprie care – che quasi mai si realizzano, alla stregua dei rifugiati di Transit di Christian Petzold. Altro film sulla migrazione continua dell’anima, ancor prima del corpo: mai stabili, mai sicuri dei luoghi e delle persone. In questi anni cruciali in cui non molto spesso è stato raccontato il dramma delle migrazioni e delle morti nel mare (togliendo qualche produzione documentaria), Diop rifugge da ogni genere di vittimismo e commiserazione, rappresentando l’evento in forma metonimica, di continui richiami ed eco, tra la detective story, l’immissione naturale dell’elemento sovrannaturale e quasi orrorifico che ci riporta a Denis, e la classica storia d’amore da melò.
Ma Atlantique è soprattutto una storia di rivalsa. Ada avrebbe dovuto essere la promessa sposa, vergine, di Omar e nonostante le sue compagne l’avessero ammonita, ricordandole la difficoltà estrema dell’essere sola «là fuori», la ragazza non rinuncia all’amore né a quel che ne rimaneva nella sua memoria, evadendo ostinata dagli obblighi di classe e dalla sua condizione di subalternità. La storia d’amore di Ada e Suleiman sopravvive nella forza eternatrice dell’immagine e alla fine – dopo l’atto d’amore consumato tra le mente e il corpo – prende coscienza di sé e della propria esperienza: Ada è il futuro, padrona di sé e di tutto ciò che deciderà di essere.