"Chissà perché la gente a questo punto cerca Dio"
Giorgio Canali
Non esiste una realtà italiana, ne esistono varie. Spesso chi vive nelle metropoli centrosettentrionali e si sposta in meridione unicamente per le vacanze estive, ignora totalmente la situazione di una periferia dimenticata dallo Stato e trascurata dai servizi d’informazione. Che le risorse non siano distribuite equamente è un’evidenza che non ha bisogno di sermoni elettorali. La somma di tutti i servizi negati crea una gabbia di arretratezza e degrado da cui è impossibile emanciparsi. Se non si ha la fortuna di essere nati altrove, si guarda il proprio Paese andare avanti mentre si resta sospesi nel tempo in un non-luogo talmente astratto e paradossale da apparire fantascientifico. Non è allora accidentale che L’ultimo sole della notte sia girato in Calabria e che trovi nelle ambientazioni uno dei suoi punti di forza. La natura indomita e i cimiteri architettonici fanno da cornice a un racconto dove l’alienazione è il fattore predominante.
Andrea, Alessandra e il signor Becatti sono gli ultimi abitanti di una palazzina situata in una zona protetta dal conflitto mondiale che sta decimando l’umanità. I sintomi del collasso erano insiti nella società già da tempo. Il sopruso e l’avidità si sono trasformati in guerra civile e rapidamente lo scontro si è esteso su scala internazionale. Privi di ogni fiducia nel domani, i tre condomini trascinano le proprie esistenze annichiliti e inermi. La narrazione non segue un ordine cronologico ma si muove indistintamente tra presente e passato annullando di fatto la dimensione temporale. Il cronotopo al suo grado zero coincide con l’infinito e il condominio, in guisa di buco nero, non permette a niente e nessuno di sfuggirgli. Il rintanarsi in ambienti sicuri ma isolati e il conseguente comunicare con i propri cari solo attraverso apparecchi elettronici sono tematiche già presenti nel quasi contemporaneo Monitor ma che Matteo Scarfò elabora con maggiore disincanto. Se nel film di Alessio Lauria al di là della cittadella c’era la vita, in L’ultimo sole della notte resta ignoto cosa possa essere sopravvissuto all’infuori della Zona 13. Il pessimismo di Scarfò emerge già dal titolo emblematico. La Guerra Fredda è terminata da un quarto di secolo, eppure le minacce nucleari persistono nelle tristi abitudini dei governanti. Al popolo privo di potere decisionale resta l’attesa del bagliore atomico definitivo. Da qui, l’ultimo sole della notte.
Scarfò realizza un’opera sofisticata senza inseguire i gusti del grande pubblico. Epura il film da particolari granguignoleschi, nonostante siano di continuo rappresentate scene di violenza. Ripudia un montaggio lineare che semplifichi la narrazione e renda il prodotto accessibile a tutti, perché così facendo andrebbe inevitabilmente perso quello stato di disorientamento che pervade i protagonisti e si ripercuote sugli spettatori. Per ricostruire le vicende dei personaggi bisogna usare le cicatrici sui loro volti come coordinate di una mappa e infine non si otterrà ugualmente una cronaca dettagliata dei loro trascorsi ma solo le suggestioni che i ricordi possono suscitare. La fotografia di Emanuele Spagnolo non si avvale delle fredde luci al neon tipiche della fantascienza distopica ma rimane quanto più naturale possibile, intervenendo giusto in fase di color correction con leggere variazioni cromatiche. La scenografia, allo stesso modo, non ha nulla di futuribile e la mobilia, che a tratti appare anacronistica persino per il presente, rimarca non un avanzamento nel tempo bensì la sua sospensione. La recitazione apatica ma funzionale di Andrea Lupia rispecchia l’imperturbabilità del suo habitat, quella terra ormai dimenticata dal resto del mondo. Scevra da orpelli, la fantascienza diventa così ontologia.