Silent, di Rezan Yesilbas, è il secondo cortometraggio dopo Judgement di una Trilogy of Women ideata dall’autore. In competizione al Festival di Cannes 2012, vinse la Palma d’Oro per il miglior cortometraggio. La storia è ambientata nel 1984, quattro anni dopo il colpo di Stato in Turchia. Molti curdi si trovano nelle prigioni, sono gli anni in cui non possono parlare la propria lingua, costretti a imparare il turco e a “vivere come turchi“. Nella prigione di Diyarbakir si trova il marito di Zeynap, donna curda costretta, come tanti altri, al silenzio. Il film ci racconta di un popolo escluso dalla Turchia, a cui è precluso nel proprio paese di parlare la propria lingua madre. Scopriamo questa realtà attraverso gli occhi di Zeynap, attraverso il suo silenzio. La narrazione vuole essere la voce di chi non può parlare ed è proprio il silenzio della donna ad essere al centro della struttura narrativa. Un giorno Zeynap, che vive con i suoi figli, decide di andare a trovare il marito in prigione. Il suo scopo è quello di portargli delle scarpe nuove. Ed è proprio questo che crea il conflitto principale della storia, essendo vietato introdurre qualsiasi oggetto all’interno della prigione. Il regista, che descrive la prigione di Diyarbakir come “il simbolo della tortura sperimentata nelle prigioni turche dopo il colpo di Stato“, non vuole parlarci delle torture, dei prigionieri politici, dei conflitti. Decide appunto di dar voce a chi non può parlare, come la protagonista del cortometraggio, che pur essendo libera fisicamente come tanti altri viene costretta a dimenticare le proprie radici, la propria identità, e si ritrova quindi in una prigione senza gabbie in cui il significato della parola silenzio non è più assenza di suoni, ma obbligo di tacere.
Un’atmosfera inquietante pervade Dove sei, amor mio del croato Veljko Popovic, un corto animato mosso puramente dai respiri, ansimi, battiti di ali e aliti di vento. Un’anziana signora è ossessionata dal ricordo del marito aviatore che di continuo le appare in sogni spaventosi, ed ogni sera nella solitudine del proprio salotto mette in scena un ballo sotto la canzone italiana dall’omonimo titolo. Ma una vicina di casa sospetta che qualcosa di misterioso sia accaduto lì accanto, e chiama la polizia, finché sogno e realtà non si confondono. Basata esclusivamente sulla suggestione delle immagini e in particolare del movimento dei volatili, che con le proprie ali rompono l’apparente calma e nelle visioni scarnificano anche i personaggi – o meglio, i “rivestimenti” in cui nascondono le proprie anime – l’opera punta a mostrare senza spiegare, promuovendo una trama fatta esclusivamente di emozioni che nella propria vaghezza cattura un’incomprensibile quanto forte sentimento di nostalgia e rimpianto per un passato sconosciuto che solo una rinascita finale può alleviare.
L’unico corto italiano di questo blocco è anche una delle perle della giornata, ovvero Terra di Piero Messina. Scritto dal regista assieme a Giacomo Bendotti, il corto è il saggio di diploma del giovane ex studente del Centro Sperimentale di Cinematografia, un lavoro che gli ha già permesso di essere l’unico rappresentante del nostro paese nella selezione della Cinéfondation, la sezione del Festival di Cannes riservata ai cortometraggi delle scuole di cinema nel mondo. Scelto tra i 15 migliori sui circa 1.700 pervenuti alla selezione, Terra è un lavoro decisamente maturo e convincente, 20 intensi minuti in compagnia di un uomo costretto ad affrontare un lutto terribile mentre discende la penisola imbarcato su di un traghetto. Interpretato splendidamente da Giorgio Colangeli, il film sorprende, oltre che per l’alta professionalità di tutti gli apparati, per la raffinatezza e sensibilità dell’occhio registico, capace sia di regalare diverse splendide inquadrature che di sottrarsi e relegarsi al semplice campo-controcampo, lasciando spazio libero agli attori, mentre sotterranea scorre una sceneggiatura evanescente, onirica, delicata e mai intrusiva. Forse una bella promessa per il cinema italiano.
In occasione del centenario della nascita di Nagiub Mahfouz, scrittore esistenzialista egiziano, premio Nobel per la letteratura nel 1988, vengono preparati e mostrati dei corti ispirati al suo libro The Dreams tra i quali, in selezione al MedFilm Festival, questo Zakaria di Emad Maher. Zakaria è un ragazzo al quale è stato vietato dal dottore di mangiare il pollo. Questo divieto, e i sensi di colpa per una possibile infrazione della regola del dottore, spingeranno Zakaria in un universo mentale carico di frustrazione. Intorno a lui tutti lo mangiano, soprattutto personaggi più maturi, più savi e più saggi. Il cortometraggio di Maher rilegge un racconto del grande Mahfouz mantenendo alto il suo carico allegorico. Una regola personale calata su Zakaria da un’istituzione entra in conflitto con l’idealismo del giovane nell’osservazione della regola. Zakaria abita un mondo dove le regole esistono e le si devono rispettare, ma basta anche solo il sentore di un cedimento per indurre in lui il senso di colpa per non esserci riuscito. L’universo mentale nel quale si cala il personaggio ha i connotati del sogno ad occhi aperti: è convitato ad un banchetto di sardonici mangiatori di pollo, il suo stesso medico lo riceve avendo sulla scrivania penne e zampe del pollame mangiato, riceve una lettera con una sentenza di morte. Il sogno diventa incubo quando il senso di colpa agisce sul primo. Il bianco e nero utilizzato aiuta lo spettatore ad introdursi all’interno dello spaesamento mentale di Zakaria, i volti degli attori sono scelti alla perfezione per essere raccontati attraverso l’uso monocromatico del grigio contrastato, la galleria dei personaggi si carica, in questo modo, di nobile sarcasmo. L’ortodossia e l’integralismo religioso sono innanzitutto delle gabbie mentali che disorientano e confondono la lucidità, nonostante si mantengano gli occhi bene aperti e vigili sulla realtà che ci circonda. Zakaria, vestito con un nuovo abito sartoriale, è pronto per l’ultimo sacrifico richiesto, spingersi contro il mare, enorme ed impetuoso gigante, che non può soccombere al suo ultimo sacrificio.
Proprio pochi giorni fa, per introdurre alla dimensione meta-cinematografica di C’era una volta in America (tornato nelle sale in una nuova director’s cut), abbiamo fatto riferimento all’esasperato empirismo di Berkeley, per il quale è la ricezione sensibile dell’uomo a determinare e legittimare l’esistente. Esse est percepi, la realtà è solo ciò che viene percepito, poiché la sua vera essenza è ideale e astratta, la materia non esiste ma solo una sua ricezione. Allora, ci si chiederà, quel famoso albero che cade da solo nella foresta, senza nessuno ad ascoltarne il tonfo, può dirsi realmente precipitato? Ed un placido e rasserenato pescatore – come quello che vediamo in Horizon di Paul Negoescu – che passa le sue giornate tra il lento fluttuare delle onde del mare, il crepitio del falò e del grasso che cola e crepita sulle poche fiamme, l’ennesima sigaretta accesa sotto le stelle impassibili, se questo pescatore quindi, cadesse improvvisamente nelle acque che sempre lo isolano, senza che nessuno lo noti, sarebbe caduto davvero? E se fosse forse solo il simbolo di una marginalità d’altri tempi, artigianale e rurale, che svanisce inosservata senza che nessuno gli presti attenzione? Allora saremmo di fronte ad una costruzione simbolica alquanto stucchevole, facile, e la Selezione Ufficiale del corto alla Semaine de la critique al Festival di Cannes 2012 apparirebbe alquanto misteriosa. Ma non tutto è come appare, e il regista gioca divertito con le impressioni suscitate sterzando improvvisamente il proprio corto, un attimo prima della fine, nel territorio di un soprannaturale che spiazza lo spettatore e al contempo irride quei simbolismi facili di cui sembrava in un primo tempo farsi portatore.
Shkluq (Sirocco) del libanese Hisham Bizri è una sorta di favola, un viaggio della mente effettuato da un uomo disperato, privato della propria identità seppur costretto ad affrontare un destino fatale. Film di montaggio, costruito interamente su estratti de La mummia di Shadi Abdel Salam, Shkluq (Sirocco) riassembla e ricontestualizza spezzoni dell’opera originaria, sradicando il protagonista del film originario e costringendolo ad un’odissea onirica e surrealista che lo costantemente in relazione con il deserto, correlativo oggettivo di una condizione eternamente atta a ripetersi.