Hill House
Mike Flanagan dirige la nuova serie targata Netflix, tratta dal romanzo di Shirley Jackson che aveva ispirato "Gli invasati" di Robert Wise.
In principio fu Robert Wise, con una delle massime espressioni del cinema gotico di ogni tempo, Gli invasati, a realizzare un notevole tributo cinematografico al romanzo di Shirley Jackson L’incubo di Hill House, a sua volta fra i caposaldi novecenteschi delle storie di fantasmi. Dopo l’indegno remake del film di Wise firmato da De Bont nel 1999 (parimenti indegno come adattamento del romanzo della Jackson, ça va sans dire), l’onere e l’onore di mettere in immagini le umbratili atmosfere evocate dalla scrittrice californiana toccano oggi a uno dei più quotati fra i giovani registi horror, lo statunitense Mike Flanagan.
Il progetto Hill House è targato Netflix e concepito come una serie in dieci puntate, quindi, per sua stessa natura, costretto all’eccedenza – di durata e di fruizione – rispetto ai normali standard cinematografici (sempre meno “normali”, a dire il vero, nell’universo multimediale che marca la contemporaneità). La sfida, per Flanagan, si dimostra quindi decisamente ambiziosa. Il regista americano, anziché azzardare un ulteriore adattamento del materiale di partenza, oltretutto tenendo presenti l’abuso e la consunzione del filone narrativo della ghost story classica al cinema, decide intelligentemente di rielaborare tale materiale riplasmandolo da cima a fondo. Flanagan infatti sceglie di rendere i protagonisti della vicenda come parte di un'unica famiglia di sette membri, due genitori, tre figlie e due figli (nel romanzo, i personaggi principali sono quattro e non sono parenti), la famiglia Crain; inoltre, il gruppo non risiederà a Hill House con l’obiettivo di studiare il paranormale, come nel romanzo, bensì per restaurare la magione e poi rivenderla; da ultimo, la vicenda viene spostata a cavallo fra l’inizio degli anni ‘90 e i giorni nostri.
Lo spirito che anima il progetto di Flanagan è proiettato nel tessere un dialogo costante fra la normalità del familiare e il perturbante del soprannaturale, fra la percezione ordinaria e l’allucinazione, fra il passato e il presente, fra la vita e la morte, con entrambi i poli di ciascuna diade a costituire le cause della deriva individuale. L’obiettivo ultimo è che l’orrore e la tragedia esistenziale si supportino a vicenda, senza che l’uno ceda il passo all’altra o viceversa. Non si tratta di un distacco totale dall’opera letteraria di partenza, perlomeno nel ricorso ad alcuni temi, e tuttavia è chiara la volontà di creare qualcosa di radicalmente autonomo rispetto ad essa.
Di fatto, Flanagan non fa altro che proseguire il suo percorso registico adattando il proprio stile e i propri temi prediletti a un formato-fiume e, per avere il maggiore controllo possibile sull’opera, si avvale abbondantemente di attori con cui ha già lavorato: da Carla Gugino (la mater familias Olivia Crain), protagonista della trasposizione de Il gioco di Gerald di King, a Henry Thomas (il capofamiglia Hugh Crain da giovane) presente sia in Ouija – L’origine del male sia ne Il gioco di Gerald; da Elizabeth Reaser (Shirley Crain da adulta), protagonista in Ouija, a Kate Siegel (Theodora Crain da adulta), sul set in ben quattro film del regista. Il lavoro sugli attori è senz’altro uno dei punti di forza di un’opera che richiede sovente dei veri e propri tour de force recitativi, interpretativi, espressivi: infatti, non di rado Flanagan ricorre a mirabolanti e virtuosistici long takes, sia producendo efficaci slittamenti – internamente all’inquadratura – della scala dei piani in funzione drammaturgica, sia esaltando l’architettura del set, costruito in modo tale da far risaltare l’incombere della tetra dimora-corpo e da far entrare e uscire i personaggi (durante alcuni snodi narrativi cruciali, specie nella seconda parte della serie), senza stacchi di montaggio e senza soluzione di continuità, da un ambiente all’altro e soprattutto da un’epoca all’altra. Il dialogo fra temporalità diverse è, in un apparente paradosso, causa e riverbero insieme dell’intrecciarsi di sogni, ricordi, allucinazioni, rimorsi, mentre i fantasmi che infestano Hill House si confondono con le paure e le idiosincrasie personali dei protagonisti, fino alla soglia dell’indiscernibilità fra tare personali e malefiche influenze esterne.
Forte di una buona sceneggiatura, sia pure con qualche evitabile orpello, e di una meticolosità certosina in dialoghi e monologhi di grande impatto, potendosi inoltre avvalere di una confezione di prim’ordine – rimarchevole il lavoro a livello scenografico (Patricio Farrell) e fotografico (Michael Fimognari) – e di una regia incisiva e barocca a un tempo, Hill House si configura in definitiva come un riuscito aggiornamento del filone delle case infestate e maledette, innervato da una cospicua dose di family drama, che moltiplica il pathos anziché annacquarlo. Certo, a tratti la regia appare un po’ troppo compiaciuta, in alcuni casi ai limiti dell’autoreferenzialità, e il proliferare di molteplici sotto-trame, sia pure giustificato dalla necessità di conferire l’opportuna profondità a ciascun personaggio, talora indebolisce la tenuta complessiva del racconto, ma la passione che si respira è spesso autentica, e non è poco.