Ouija - L'origine del male
Chiamato dalla Blumhouse a dar lustro al franchise, Flanagan nasconde il confine tra realtà e finzione piegando il gioco alle regole del cinema.
A cominciare dal logo retrò della Universal Pictures, continuando con i titoli di testa anni ’60, per terminare con le macchie, le bruciature che compaiono sporadicamente ai bordi dell’inquadratura mimando le storture della pellicola. Tutto in Ouija - L’origine del male dialoga con la contraffazione: la forma, i contenuti, la sceneggiatura. Mike Flanagan, chiamato dalla Blumhouse per provare a dare lustro al precedente Ouija, che aveva ricevuto riscontri inversamente proporzionali tra botteghino (positivo) e critica (estremamente negativa), lo dichiara sin dall’inizio. La storia di una famiglia tutta al femminile (una madre e due figlie) che si trova a inscenare sedute spiritiche per racimolare quel tanto che basta per pagare l’affitto della casa dopo la prematura scomparsa del padre, più che con l’elaborazione del lutto e la paura del fallo — temi comunque centrali, anche se solo abbozzati — ha a che fare con il rapporto tra vero e falso.
Lo spettatore viene forzato a uno stato confusionale dalle continue bugie che gli si presentano davanti fino a quando si scopre incapace di capire a chi o cosa credere, trovandosi a dubitare persino della stessa natura del film: horror o divertissement? Sembra che i personaggi che si muovono in un’inesistente Los Angeles (non a caso, la patria del cinema: il luogo dove finzione e realtà si scambiano informazioni continue) del 1967 non sappiano far altro che mentire per raggiungere i propri scopi, reali o immateriali che siano: Alice, la madre, che truffa i suoi clienti con le patetiche messinscena di sedute spiritiche; il demone che possiede la figlia, che finge di essere il padre defunto; il parroco, che inventa informazioni false per smascherarne la natura. Gli uomini mentono ai fantasmi e i fantasmi mentono agli uomini in quello che diventa un circolo vizioso e virtuoso che può essere dipanato solo con la più classica delle carneficine.
Il grande pregio della sceneggiatura (firmata dallo stesso Flanagan) è quello di concepire l’ouija e, di riflesso, il film che ne porta il nome, non come strumento realmente orrorifico, come tavola per la comunicazione medianica che possa mettere in contatto con un mondo altro, ma come gioco attraverso cui “ci si spaventa da soli” (per dirlo con le parole di Lina, la maggiore delle sorelle). Non a caso la tavoletta ouija che scatenerà le ire dei demoni che infestano da anni la casa in cui abitano le donne viene prelevata dalla protagonista da uno stock di giochi in scatola ed è successivamente a un finta seduta spiritica fatta da Lina con i suoi amici che ha inizio la concatenazione di eventi. È nel continuo dialogo con il cinematografico che vanno ricercati i (non)significati del film, nell’uso della tavola ouija simile all’uso di una macchina da presa che dà vita ai giochi e agli incubi. È guardando all’interno della lente con cui gli spiriti indicano le lettere, come si guarda nel mirino di una telecamera, che i protagonisti vedono gli spiriti muoversi per la casa; spiriti che, di rimando, come lo spettatore voyeur, spiano le azioni che avvengono all’interno della casa da anni.
É all’interno di questa chiave di lettura che va analizzata la grafica del titolo, con la scritta “Ouija” che appare dentro un rettangolo che ricalca, certo, la struttura della tavoletta, ma che è altrettanto simile al mirino della macchina da presa. Tutto nasce dalla tavoletta e finisce con la tavoletta: il gioco per il gioco stesso. Un enunciato che serve a Flanagan per mettere in luce la natura ludica del film horror, i suoi cliché e i suoi aspetti autoreferenziali che, poi, sono quegli aspetti (i ripetuti jump scares, gli effetti speciali curati ma già visti) che finiscono per limitare il film a una canonica produzione horror contemporanea, per quanto avvalorata dallo stile asciutto e certosino del regista. Con questa operazione Flanagan dichiara furbamente di essere pienamente consapevole della natura del lavoro che gli è stato commissionato, lo costruisce come da copione e si diverte con l’etichetta di “mestierante” che gli è stata più volte affibbiata: si sa, nei giochi si usano delle strategie per ottenere il massimo risultato, e queste strategie, in fin dei conti, sono sempre le stesse.