Missione: Impossible - Rogue Nation
Esaltante quinto capitolo della saga che, mentre riflette su Hollywood e i suoi miti, edifica una volta per tutte l’immagine senza tempo di Ethan Hunt/Tom Cruise.
Dopo che Brad Bird ha trasfigurato Tom Cruise nel corpo elastico e “impossibile” di un film (quasi) d’animazione, Christopher McQuarrie prende il timone della saga incentrata sulle avventure dell’intramontabile Ethan Hunt.
Mission: Impossible - Rogue Nation, oltre a essere una bomba a orologeria che tiene incollati allo schermo per più di due ore, rappresenta l’episodio più squisitamente metacinematografico della saga. Da un certo punto di vista, il quinto capitolo sembra infatti un film su Hollywood e sui suoi miti, sullo star system e i meccanismi della fama, sulla possibilità delle star di arrestare il tempo, di fermare l’età, di tornare – sempre e comunque – in prima linea.
L’importante, del resto, è non frenare mai.
Ethan Hunt pare un cyborg dal cuore d’oro, una figura leggendaria che conosce la morte ma non può subirla. M:I intercetta ancora una volta il suo DNA nell’invincibilità della star: Hunt rischia tutto e non perde mai. Tutto il franchise fa leva su una radicale sospensione dell’incredulità, come se l’action-movie, molto più della fantascienza, avesse un verosimile ancora più personale ed esclusivo. Qui lo spettatore non teme per la salvezza dell’eroe, ma è interessato solo a vedere come, quando e perché il suo paladino riuscirà a cavarsela. Come dire, è attratto dalla trovata, dalla sequenza filmica, dal suo tempo interno, dalle coreografie di un’ennesima missione impossibile. In una parola, è attratto dal cinema.
Tutta la retorica nolaniana dell’eroe dark, della figura cristica e martoriata fino al midollo, capace di soffrire, perdere e infine morire, pare qui polverizzata. M:I - Rogue Nation si muove in totale controtendenza, interessato solo a riedificare l’immagine immortale dell’icona prode e giusta che si erge su un mondo dominato dal male. Come se le tragedie del contemporaneo non avessero in alcun modo scalfito la patina dura e pura dell’eroe. Questo significa tornare all’essenza stessa del cinema d’azione, intercettare la tensione basica di ogni movimento, di ogni sequenza, di ogni colpo di scena: tutto detona con forza dirompente, pronta a squarciare qualsiasi sottotesto.
Del resto, Rogue Nation è, più di ogni altra cosa, un film su Tom Cruise. Star cinquantatreenne, perennemente sotto i riflettori dei media, corpo attoriale che non usa stunt ma si lancia in acrobazie da capogiro. Il film ruota a velocità insondabili intorno alle infinite possibilità di un corpo che si oppone al tempo, alla morte, alla realtà stessa. Tutto questo si trova genialmente compendiato nella battuta chiave del film quando, con una capacità di sintesi straordinaria, Hunt ribadisce: “Io sono il dispositivo”, o meglio Tom Cruise è il dispositivo, l’appeal, la Hollywood vecchio stampo virtualizzata, espansa e infine eternizzata. McQuarrie ammanta di un sapore supereroistico Hunt, costruisce una serie infinita di scene madri tutte volte a lavorare su un immaginario legato imprescindibilmente alla simbologia e all’iconografia dell’eroe.
Del resto, già la breve sinossi riporta in auge il modello del cavaliere braccato alla ricerca disperata di un fantasma. L’IMF viene chiusa e Hunt, ricercato nientemeno che dalla CIA, dà la caccia al famigerato Sindacato, organismo leggendario e terroristico formato da agenti dichiarati morti.
I primi minuti del film, quelli gettonatissimi in cui Cruise si attacca al portello di un aereo militare che sta decollando, rappresentano magistralmente cosa sia e dove stia andando il franchise di Ethan Hunt. Ogni azione deve sempre superare quella precedente, dev’essere più eclatante, più eccitante, sempre più rigorosamente impossibile. La struttura narrativa stessa accumula una sequenza adrenalinica dopo l’altra, piegando la verosimiglianza a proprio piacimento e gettando così lo spettatore in un’apnea di centotrenta minuti.
Una vera e propria immersione testosteronica carica di humour e leggerezza. In questo senso troviamo Rogue Nation uno straordinario film sulle superfici, sui contorni, sulle apparenze, nella convinzione radicalissima che non vi sia nulla di più profondo della pelle digitale. McQuarrie punta sull’eleganza di una messa in scena capace di lavorare sulla sensualità del movimento di macchina, sulla raffinatezza del primo piano, sull’insondabilità dei campi lunghi. Ogni stacco di montaggio è sapientemente programmato per incalzare il ritmo, per costruire geografie di corpi, pugni e movimenti, fino a deflagrare in velocità massime che eliminano qualsiasi distanza. Basta citare l’incredibile sequenza della Turandot austriaca per comprendere come Rogue Nation lavori su un immaginario scintillante e virtuoso, che usa gadget hi-tech ma guarda fieramente - e mai nostalgicamente - a un passato, a un cinema che non esiste più.
E, infine, c\'è il personaggio di Rebecca Ferguson, una sorta di bond-girl che arriverà perfino a rubare la scena a Ethan Hunt. La donna, agente segreto britannico, è tutt’altro che il classico, innocuo oggetto del desiderio: è il doppio femminile di Hunt, il suo scottante alter-ego, la fiamma che sfugge sempre all’eroe. Non è d’altronde tutto Rogue Nation il racconto di una love-story mancata, il resoconto divertito e un po’ amaro di una relazione sfiorata, l’indice esilarante di una serie infinita di tentativi di abbordaggio? Si pensi alla lunga sequenza di corsa in moto, ennesima fuga d’amore, ennesimo inseguimento destinato a lasciare l’amaro in bocca. La relazione viene rinviata, devia le prospettive, disattende il desiderio. Ironicamente – ma non troppo – si potrebbe riflettere su un punto: niente sesso per Ethan Hunt. Pugni, sparatorie, velocità spaventose, missioni impossibili: il mondo di Ethan Hunt riesce a essere violento e candido nello stesso istante. E’ proprio il suo essere fuori tempo massimo a rendere Ethan Hunt l’ultimo dei romantici: l’eroe può salvare il mondo ma poi rimane sempre solo. Tanto, a coprirgli le spalle, ci sono almeno gli amici…