Braid
Mitzi Peirone, giovane regista italo-americana, esordisce con un horror pastiche che tutto contamina e decostruisce, non privo di fascino ma troppo artificioso per risultare davvero disturbante e allucinato.
Nynphomaniac di Lars Von Trier, Raw - Una cruda verità di Julia Ducournau, The Neon Demon di Nicolas Winding Refn, L’inganno nella versione di Sofia Coppola, Hereditary di Ari Aster, La casa delle bambole di Pascal Laugier.
Che siano citazioni dirette o un semplice effetto déjà-vu, è impossibile non notare la quantità eterogenea di riferimenti thriller e horror (anche antitetici nello stile) su cui è stata costruita quest’opera prima della regista venticinquenne italo-americana Mitzi Peirone. Una lista che potrebbe tranquillamente essere ampliata e che, per costruire un discorso sulla forma di Braid, necessita di un’obbligatoria integrazione: affianco ai numerosi rimandi cinefili che ci si potrebbe divertire a scovare per tutta la durata della pellicola, e che si succedono cronologicamente uno di seguito all’altro — come se ogni sequenza fosse stata pensata e strutturata seguendo i canoni di uno specifico film — si può infatti inserire anche un elenco delle forme, degli stili e delle trovate estetiche/narrative.
Macchina da presa statica, macchina da presa a mano, zoom, riprese dalle videocamere di sorveglianza, inserti in bianco e nero, rotazione 360° della macchina da presa, piano inclinato a 180°, color correction virata al viola durante un trip allucinogeno, piani olandesi, fotografia antinaturalistica con luci asettiche o luci a effetto neon, a volte verdastre, a volte blu, a volte rosa, a volte viola, suddivisione per capitoli, flashback, titoli di testa grafici e policromatici oltre a scene di sesso saffico, esplosioni splatter tarantiniane e una lunga serie di generi convergenti: horror ospedaliero, torture horror, post-horror, crime, pulp, mind game movie, dramma psicologico ecc.
La forma di Braid è intricata, incalcolabile, indecifrabile, esattamente come la narrazione e la mente delle protagoniste, tre ragazze, tre amiche d’infanzia, legate da un rapporto morboso che affonda in un espediente (potenzialmente) utile per indagare la psicologia femminile, e da un gioco macabro che le porta a simulare un rapporto dominatore-dominato in cui ognuna delle ragazze protagoniste assume talvolta un ruolo, talvolta l’altro: a volte madri irascibili, altre figlie adolescenti incontrollabili.
In questo senso, gli intenti di Peirone sono chiari e suscitano interesse: costruire una forma/non-forma che tragga linfa proprio dal disorientamento dello spettatore per costruire un’atmosfera allucinata attorno a scenografie pop, minimali, recuperando il motivo delle “modelle-streghe” (Petula e Tilda, le due protagoniste sono delle artiste cool newyorchesi) dello Showgirls di Verhoeven e del Demone al neon di Refn, declinandolo all’interno di un’ambientazione casalinga, un microcosmo in cui si sgretolano i rapporti d’amicizia e di potere che il film aveva precostituito e in cui emergono vecchi drammi e rancori.
Questo sgretolarsi della narrazione e della forma di fronte a uno spettatore sempre più confuso è l’elemento che sembra aver convinto maggiormente i critici che hanno sostenuto il film, esaltando la (de)costruzione di una trama praticamente nulla: al contempo, paradossalmente, il tratto che sembra mancare a questa forma fluida è proprio la coerenza stilistica. A ogni inquadratura pare che Peirone si sforzi di costruire un’atmosfera allucinata attraverso ogni trovata possibile e attingendo a ogni cliché dell’horror estetico degli ultimi anni. Nei corpi nudi, nelle scritte fluo allo specchio, nelle mascherine chirurgiche, nei neon, nei dolci dai colori saturi decorati con scritte tetre, si respira non tanto la malattia, l’allucinazione, il delirio, l’aria di minaccia che la regista vorrebbe costruire, quanto lo strenuo, inefficace (se non a brevi tratti) tentativo di impalcarla che finisce per donare al prodotto finale un aspetto posticcio e gratuito.