Mockingbird

Ancora un mockumentary, per uno sguardo gelido e spietato su un Paese troppo impegnato a guardare sè stesso per accorgersi dell'orrore che cova in grembo.

Eccoci nuovamente a parlare di mockumentary , sottogenere tra i più controversi e bistrattati degli ultimi tempi: vera e propria gallina dalle uova d’oro per una Hollywood sempre più a corto di idee e sempre meno propensa al rischio, la tecnica del POV ha generato, solamente negli ultimi anni, una quantità tale di pellicole che oramai è impossibile tenerne il conto. Grazie anche a dei costi di produzione relativamente ridotti e a quella spietata logica del brand per cui una formula vincente (almeno in termini di botteghino) deve necessariamente essere ripetuta all’infinito, la saturazione del mercato è infine arrivata, inevitabile.

Eppure la natura stessa del found footage si presta benissimo a una sperimentazione sul linguaggio che in pochi hanno avuto il coraggio di portare avanti: questa rubrica si è già occupata di titoli come The Poughkeepsie Tapes, Open Windows e What We Do in the Shadows, a testimonianza che anche nell’horror le idee in questo senso non mancano, e ora a questo elenco aggiungiamo ben volentieri Mockingbird, in uscita proprio questo mese per il mercato home video italiano.

Diretto da quel Bryan Bertino già autore di The Strangers, il film racconta parallelamente tre episodi (la donna, la famiglia e il clown) in cui i protagonisti ricevono in dono una telecamera e cominciano a filmare, convinti che il misterioso regalo sia frutto di uno dei molti concorsi ai quali partecipano tutti gli anni al centro commerciale. Una volta consumata l’euforia iniziale, però, ben presto l’entusiasmo si trasforma in un incubo: se vorranno sopravvivere essi dovranno infatti continuare a girare (a produrre immagini), fino al colpo di scena finale in cui le tre tracce narrative convergeranno nella stessa direzione e il film scoprirà (alcune) delle sue carte.

Bertino realizza quasi una versione astratta e teorica del suo film d’esordio, mantenendo intatta la dimensione domestica dell’orrore e lasciando fuoricampo una minaccia intangibile e sconosciuta: di fatto, in Mockingbird lo sguardo è costretto a protrarsi all’infinito, pena la morte. La telecamera è costretta a filmare (quindi l’occhio è costretto a vedere), senza però riuscire mai ad affrontare realmente l’orrore in volto. Quello che ne emerge è allora il ritratto di un Paese troppo impegnato a guardare sé stesso da non riconoscere più la minaccia che cova – letteralmente, si pensi al finale – in grembo; e il fatto che l’intera vicenda sia ambientata nel 1995 lascia su tutto un sapore di sconfitta, un’eredità di sangue lasciata da ogni generazione a quella successiva.

Come nella migliore tradizione inaugurata da Romero e il suo inarrivabile Diary of the Dead, anche Bertino nel suo piccolo riesce a utilizzare le coordinate del genere e il linguaggio del mockumentary per raccontare un mondo ormai alla deriva, nel quale l’occhio che uccide è in grado di mostrare qualsiasi cosa senza però riuscire a capirla, senza poterne sviscerarne origini e significati. Il rischio, ovviamente, è quello di una eccessiva freddezza teorica che qui non sempre sembra essere tenuta sotto controllo in maniera compiuta, quasi trasformando Mockingbird in un film a tesi che il raggelante finale non fa altro che confermare; ma anche così, rimane un prodotto in grado di instillare dubbi e inquietudine che non si esauriscono con la visione, ma che rimangono ben sedimentati nella mente dello spettatore.

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 04/05/2015

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