Moloch
Tra found footage e racconto biografico, il bergamasco Stefano Testa riscopre la sua terra partendo dai gesti più semplici
Prima di tornare a vivere sullo schermo, buona parte delle immagini che compongono Moloch, opera prima di Stefano P. Testa, giaceva dimenticata in una discarica della zona in cui il regista è nato e cresciuto, in provincia di Bergamo. Immagini perdute e ritrovate, dunque, impressionate su nastri di vecchie videocassette degli anni ’80 e ’90, finite chissà come tra gli scarti. Veri e propri objets trouvés da cui emergono le micronarrazioni personali di piccoli home movies, filmini amatoriali intesi per una fruizione ristrettissima ed intima: gite fuori porta, matrimoni e battesimi, partite di calcetto ed esibizioni musicali, i piaceri della tavola e del sesso, gli affetti famigliari.
All’ordinarietà provinciale di questo found footage, interrotta qua e là da frammenti di viaggi esotici e da altri singolari innesti, l’autore giustappone frammenti del racconto autobiografico di Roberto, uno zio sessantenne che rievoca le sue esperienze di vita e traccia i connotati della società in cui è cresciuto, dal primo incidente in moto alle spinte vitalistiche e palingenetiche dell’anarchismo punk, dall’impiego come bidello amico degli studenti – con la meravigliosa confessione d’aver letto “Moby Dick” e “Delitto e Castigo” poggiando i volumi direttamente sulla lavapavimenti in funzione – al rapporto con la fede e con i dogmi cristiani. Dal matrimonio senza figli con l’amata Nadia alle sconsolate considerazioni sulla forza livellante dei sistemi di potere, presse reificanti ed alienanti consacrate al culto del materialismo e della speculazione. Moloch, appunto, il “senza amore”, “la sfinge di cemento e alluminio” che mangia “cervelli e immaginazione” del celebre poema lisergico di Allen Ginsberg (Howl, Urlo), citato esplicitamente nel finale. Ma Moloch è anche il tempo che scorre e toglie le forze, la morte che spegne la scintilla dell’esistenza per riaccenderla, forse, in un altrove che non è dato conoscere.
A questo mostro polimorfo e cangiante che fagocita tutto e tutti non può che opporsi il cinema, dispositivo della riviviscenza dei corpi e delle immagini, della sopravvivenza e del risveglio; un cinema del riciclo, in particolare, come quello di Testa, capace di recuperare e di plasmare una preziosa materia prima preesistente, prima di lanciarsi nell’atto della creazione ex novo, di pescare fuori dagli archivi istituzionali per scovare frammenti di vita semplice in anonimi diari audiovisivi. C’è in questa operazione un forte desiderio di indagare una realtà minuta fatta di piccoli gesti e abitudini, di incontrare il passato prossimo della propria terra, non per ricostruirlo filologicamente ma per recuperarne la dimensione umana. Una sorta di archeologia sentimentale che permette all’autore di calarsi direttamente nelle auto-etnografie disegnate dallo sguardo dei propri conterranei e di riesaminare l’identità locale a partire da narrazioni visive prodotte fuori dai circuiti rappresentativi dominanti.
È quel tipo di curiosità che ha animato le ricognizioni di Alan Berliner in The family album (1986), la ricostruzione dell’Ungheria privata di Péter Forgács o i lavori di Ken Jacobs. Forgacs sosteneva di cercare il sacro nella banalità di esistenze comuni attraverso il linguaggio della fotografia e del cinema. E sacro è tutto ciò che è divinamente prezioso, come i blocchi di vita vera che Testa nega all’oblio e che (ri)mette in dialogo con le rimembranze di suo zio, con noi, con lo spettatore. Innestando questi ready made magnetici nel proprio debutto, dando loro un nuovo significato e nuova linfa attraverso il montaggio, il regista ne recupera la memoria, obiettivo principe del cinema d’archivio, privato o collettivo poco importa. Parallelamente, la storia di Roberto, registrata in totale naturalezza (inizialmente la finalità delle riprese era del tutto personale) e mostrata al pubblico, permette ai ricordi immersi nel flusso di coscienza individuale di staccarsi e di giungere all’Altro sotto forma di racconto. Ed è in questa riterritorializzazione e ricontestualizzazione degli oggetti (ri)trovati e delle confidenze, nell’esporli all’attenzione esterna dello spettatore, fuori dal proprio ambiente elettivo, nel détournment dell’utilizzo situazionistico, che nascono nuovi, interessanti, significati.