Monte

Il cinema apolide di Amir Naderi si compone di un nuovo esaltante capitolo. Forse quello definitivo, in cui tutte le linee narrative del suo cinema convergono verso il punto di massima astrazione

Il cinema apolide di Amir Naderi si compone di un nuovo esaltante capitolo. Forse quello definitivo, in cui tutte le linee narrative del suo cinema convergono verso il punto di massima astrazione possibile, che porta, come mai prima d’ora, al crollo dell’immagine, alla sua deflagrazione, premessa necessaria al ritorno della luce e alla conquista di una casa, di un territorio ostile, che possa finalmente ospitare il suo cinema senza fissa dimora. Per la prima volta abbiamo un nucleo familiare unito nelle intenzioni e nella volontà. Il motivo dell’ossessione, da sempre presente nel cinema naderiano, si traduce qui nella scelta di restare: i personaggi del film, condannati alla maledizione della montagna, anziché abbandonare il proprio villaggio alla ricerca di condizioni di vita migliori, scelgono la via della resistenza, ovvero dell’immobilità assoluta, contraltare di quella monumentale della montagna, che incombe sulla vallata. La posta in gioco del film è altissima e riguarda il senso di appartenenza ad un luogo e la sua conseguente difesa. Cosa ne sarebbe di quella famiglia lontano dalla propria casa, dal cimitero nel quale riposano le spoglie dell’amata figlia, dal villaggio dei propri padri? Una domanda inedita nel cinema naderiano, mosso piuttosto dal viaggio, dallo spostamento fisico, dall’erranza, e in alcuni casi dalla fuga, riflesso (in)volontario della condizione apolide del suo autore, che nel suo lungo tour ai quattro angoli del mondo (dall’Iran agli Stati Uniti, passando per il Giappone fino all’Italia – in attesa della luna) ha riproposto con costanza il motivo della precarietà abitativa ed identitaria, anche nei casi in cui il contesto era favorevole, come in Marathon in cui la protagonista pur avendo una casa non può fare a meno di uscire per compiere la sua impresa da guinness dei primati. Anche in questo caso l’estraneità/ostilità è forte, soprattutto nel villaggio limitrofo che emargina Agostino e la sua famiglia, visti come portatori di sventure.

Ma qualcosa è cambiato in Naderi, deciso, a questo punto della sua carriera, ad affrontare il rapporto con il territorio in maniera diversa, in quanto frontiera identitaria da preservare ad ogni costo. Per farlo pone i suoi personaggi davanti alla più incredibile, folle e impossibile delle sfide: quella contro la consistenza granitica di una montagna da abbattere. Uno scontro titanico che è anche una resa dei conti tutta interna al cinema naderiano, destinazione (ultima?) della ricerca quarantennale sul concetto di sfida e di limite dentro e fuori l’immagine, nella diegesi così come sul set. Le due dimensioni sono sempre andate insieme, facendo della lavorazione del film parte integrante del progetto filmico. Il cinema di Naderi è un cinema di pura fisicità, non solo per quel che accade nell’immagine, nelle condizioni materiali in cui sono posti i suoi personaggi, ma anche per lo sforzo fisico che richiede a chiunque voglia misurarsi con le sue imprese. Ci vuole un fisico vigoroso ed allenato per stare al passo di Naderi, per reggere la sfida del set, per sostenere il ritmo delle sue immagini, per resistere al circolo ossessivo della ripetizione gestuale. Chiedetelo ai suoi attori e alle sue troupe. Nel cinema di Naderi c’è una dimensione sportiva evidente. Pensiamo ai suoi titoli più celebri, come Il corridore oppure Marathon, che evocano entrambi la corsa, nient’altro che il movimento di un corpo nello spazio, tra rapidità e resistenza. La madre di tutte le discipline sportive. La corsa torna anche qui in uno dei momenti più sublimi del film, a marcare un ritorno che è già una fuga in avanti nel tempo magico della montagna. Ma che succede allora quando questa atleticità viene sfidata da un avversario imbattibile? Tanto più imbattibile considerato il setting italiano?

Monte può essere visto anche come la sfida personale di Naderi al sistema cinematografico nostrano, quello degli attori con la dizione perfetta (anche se Andrea Sartoretti e Claudia Potenza formano una coppia perfetta), delle Film Commission, di un ambiente intrappolato, proprio come il villaggio, nell’esclusiva preservazione di un passato museale. Questo conflitto tra immaginari si riflette nel film: mai come in questo caso si avverte una certa estraneità tra il punto di vista dell’autore e il contesto produttivo. Tutta la prima parte registra come un sismografo le piccole scosse che precedono il “terremoto” finale, come un percorso a tappe di progressivo affrancamento che trova poi espressione nella distruzione dell’immagine. Prima di quel momento, percepiamo una maggiore difficoltà rispetto al passato nel far risaltare la dimensione corporea della sfida, come se la consistenza e l’immobilità della montagna frustrassero ogni tentativo, consumando l’atleta naderiano, vittima della sua stessa forza, della sua stessa energia, della sua stessa resistenza, che gli si rivolta contro con un’intensità uguale e contraria. Almeno fino al memorabile finale, che sublima con immagini di rara potenza, sospese tra il passato ed il futuro del cinema, la verticalità cui tende tutta l’opera di Naderi. Cut.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 07/09/2016

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