Non ci basta niente: eppure siamo destinati a morire, anzi stiamo morendo; ogni giorno ci avviciniamo all’ultimo giorno e ogni ora ci spinge a quell’istante da cui dovremo precipitare nella morte.
Seneca, Lettere a Lucilio – Libro XX
Quando il sangue inizia a scorrere non lo si può fermare. Non si cicatrizza tanto facilmente una ferita inferta con diprezzo e con dolore. Immaginate la terra arsa dell’arena, immaginatela intrisa di rosso. Schiavi contro schiavi. Ferite e sangue, pelle strappata, ossa spezzate. Sangue che richiama altro sangue. Sangue che sgorga dalle ferite aperte e cade a terra, lasciando un’ombra rossa che mai si toglie, riflesso indelebile del suo passaggio. Sopra quello stesso terreno, sul quale è inizialmente caduto, anche lontano secoli, il sangue ne reclama ancora. Come se il suolo, una volta assaggiato fino alle radici il dolore dell’uomo, ne mantenga il gusto e l’insazibilità.
Roma, 73 A.C. – Spartaco guida un’insurrezione di schiavi, 200 gladiatori si ribellano al potere dell’Impero. Alcuni di loro, schiavi ormai solo al dolore dell’uomo, uccidono, stuprano, razziano villaggi. Lo stesso sangue da loro versato, lo stesso dolore da loro inferto, verrà ripagato con la giusta moneta, anch’essa fatta di ferro e sangue, affilata come la lama del gladio. Verranno presi, uccisi e crocifissi lungo la strada.
Questo è il racconto animato che accompagna i titoli di testa di Morituris, film indipendente ed opera prima del regista Raffaele Picchio. L’animazione e i disegni, molto curati, ci raccontano di una storia antica, trasferendoci in un’altra epoca remota. L’incipit che li precede, apre allo spettatore la materia del ricordo prossimo impresso su un Super 8 artificiale, dove viene mostrata una famiglia che viene brutalmente uccisa in un bosco ai lati di una strada consolare. Già da qui traspare il nichilismo del sangue che successivamente si ripercuoterà sull’intera durata del film. Lo zio vuole “giocare” con la nipotina, si fa promettere che non dirà nulla ai sui genitori, il dolore che risveglia altro dolore, sorge la nemesi e quella terra inizia a reclamare un altro pasto. Muoiono tutti nessuno escluso. Due distanze temporali rivolte al passato; una leggendaria e remota, rappresentata dall’inizio del banchetto di sangue e l’altra più prossima, che continua a ripercuotersi con la cadenza esatta di una mannaia. Distanze che iscrivono la storia in un presente molto più quotidiano ma certamente non meno letale. Tre amici vanno alla ricerca di un rave, caricano due turiste dell’est conosciute precedentemente in un locale, fumano, bevono, sniffano ed arrivano a destinazione. L’identità di partenza, quella che li lega alla città, è rappresentata da un loro amico che rimane nella sua terrazza romana, ricco e perverso quanto basta per regalarci una delle scene più riuscite e discusse dell’intero film. I ragazzi arrivano, è notte, ed il rave non c’è. Tutto è stato calcolato. Inizia lo stupro, la nemesi si sveglia, il sangue vuole altro sangue ed inizia la mattanza. Monumentali gladiatori, giustiziati su quella terra, riversano la loro ira su tutto ciò che si muove tra il fogliame.
Morituris appartiene, né più né meno, alla categoria degli slasher movie farciti di rape/revenge, un filone dell’exploitation senza alcuna pretesa di identificazione, solo puro gore per maggiorenni e non solo. Dove il gusto è pari solo al disgusto, dove non conta chi è il carnefice o cosa egli sia, ma dove conta il come esso avviene, il modus operandi dell’esecutore, perché il resto è già noto a tutti. Morituris è simile a molti altri titoli passati, distribuiti e non vietati. Ma il nostro Paese è costruito su una base di “se”, di “forse”, di “però” e di “contro” e lo stesso film distribuito all’estero, qui ha un altro ostacolo in più da affrontare. Se in altri paesi europei è distribuibile (e in alcuni è già stato fatto) in Italia non lo è, perché una legge del lontano 1962 sulla moralità (legge democristiana, obsoleta ed ancora solubilmente vigente), con la stessa cadenza della mannaia, lo vieta. E la fortuna di un film di questo genere sta proprio nella violazione della libertà personale di visione. Ciò che è stato tolto ritorna con tutt’altra forza e in tutt’altro modo. Il divieto è il marchio indiscusso del cult.
Nella stessa mandata ne sono stati vietati cinque ai minori di 18 anni, tra cui Girotondo di Manuli ma per altre ragioni, ed escluso uno, Morituris appunto. Anche La bottegha dei suicidi di Laconte era passato dalla stessa latitudine della lama della mannaia, bersaglio comunque mancato a causa di un forte ritorno economico della distribuzione nel nostro Paese. La chiave economica apre molte porte e spezza molte mannaie, lo stesso non si può dire per un prodotto indipendente italiano. Basterebbe leggere integralmente la motivazione del divieto per fare in sintesi un resoconto sulle scene meglio riuscite. Leggendola dopo aver visto il film la si potrebbe confondere con la sinossi, ma non vi si trova scritto niente di sconvolgente per un film di questo genere, certo da vietare ad una determinata fascia di pubblico (e tra i minorenni inserirei anche i maggiorenni a cui non piacciono i film di questo genere e ripescherei tra i primi, almeno dai 14 anni in su, i puerili amanti del genere in questione), comunque nulla che giustifichi la censura e quindi l’esclusione dal circuito distributivo nazionale. “Infine, negli atti di perversa violenza viene impiegato un topolino come un oggetto sessuale.” Così sintetizzata dalla censura, viene descritta una delle scene migliori del film. Scena scritta e realizzata attraverso il semplice utilizzo incongruo di un oggetto (un tubo trasparente), un animale (un topolino bianco) ed una cavità femminile. Ma questo è solo l’imperativo del genere di appartenenza che necessita di misure di scrittura e messa in scena tese all’eccesso, quindi appropriate al genere stesso. Credo sia scontato dire di non rifarlo a casa, credo sia scontato sottolineare che è un film per amanti del genere di riferimento, tanto quanto scontata risulta essere la motivazione stessa del divieto.
Il film che ne deriva non toglie e non aggiunge nulla al filone dell’exploitation tout-court, agendo più nel sottobosco italiano dell’horror indipendente, terreno questo fervido e frizzante di novità, molto più stuzzicanti rispetto al nostro grigio mainstream. Degna di nota è l’illustre collaborazione con un maestro e veterano come Stivaletti agli effetti speciali, e la forza del film, costruita soprattutto sulle scene di eccesso visivo, ne gode appieno. Soprattutto nella seconda parte, quella dell’inizio della carneficina, dove una flessione drammatica nella scrittura comincia ad affiorare, mentre l’efferatezza dell’effetto speciale in sé, di pregevole fattura, di mastodontici gladiatori sanguinari, continua a tenere alta l’attenzione ed il gusto del disgusto. Film divisibile in due parti quindi, la prima dove si tiene salda l’attenzione attraverso una scrittura d’accumulo che sfocia in uno stupro molto più violento e scioccante, proprio perché costruito lentamente e scritto con un accurato dosaggio drammatico, e la seconda che immette all’azione violenta; e se da una parte pecca in ingegno ed in struttura deflagratrice del crescendo iniziale, dall’altra certo ne acquista in efferatezza. Un’opera prima che riflette una regia cinica, una messa in scena spietata, rappresentata dal nichilismo del sangue che non risparmia proprio nessuno, né vittime né carnefici. Il sangue è il ricordo violento di persone violenti su una terra oramai assetata di sangue. Lava tutto ma rimane ovunque. La Nemesi quando si innesca non perdona e non giustifica nessuno. Picchio crea un campo magnetico insanguinato costruito per il dolore, dove non risparmia nessuno, inscatolando in una camera della tortura silvestre vittime e carnefici, tutti sullo stesso piano e tutti pronti al giudizio di un passato generato dal sangue versato. Quindi, mi domando io, siete tutti pronti ad essere crocefissi?